Dall’Egitto alla Sardegna. Il fassone non deve morire

Ci sono dialetti inconfondibili perché accompagnati da cadenze e suoni che li distinguono tra loro, come quello sardo, che mi ha tenuto compagnia durante un mio recente viaggio in treno e che mi ha riportato alla mente il racconto di Gianni Piras, conosciuto tanti anni fa. Originario di Cabras, Gianni rammentava di quando i suoi vecchi costruivano a mano i fassoni,  barconi fatti con giunco, canne e fieno e che servivano per andare a pesca, simili a stretti gusci che avevano avuto origine nell’antico Egitto.

Quante cose aveva da raccontare Gianni!

Il borgo di Cabras, situato sulle sponde dello stagno Pontis da un lato e dalla penisola Sinis, coronata di nuraghi dall’altro, rappresenta una terra splendida e antica ove la preistoria si sposa con le barche da pesca fatte di papiro e paglia essiccata, in un’unione lunga quanto la storia stessa.

I fassonieri, questo è il nome di coloro che lavorano questi mezzi da navigazione, lo fanno per passione, amano il silenzio e non vogliono ascoltare il rumore dei motori: il fruscio dei canneti mossi dal vento, lo sbattere delle ali degli uccelli che si tuffano a pelo d’acqua, sono tutto ciò che tiene loro compagnia.  Anche le donne collaborano a fornire il materiale per le costruzioni, preparando le fascine di fieno, giunco e canne, ed è un lavoro che si perpetua per tutto l’anno perché queste imbarcazioni, messe a contatto con l’acqua, hanno una durata di circa 40/50 giorni, poi si deve costruirne altre.

I nonni di Gianni  erano pescatori, un mestiere che non portava ricchezza. Spesso i prodotti della pesca – muggini, carpe, spigole e atterine – erano appena  sufficienti a sfamare la famiglia, e solo grazie all’essicazione della bottarga, uova di alcuni pesci, ricca di calcio, fosforo , ferro e vitamine ed esportata nel continente, le loro entrate finanziarie erano maggiori. Quando poi si riusciva a “tirare sù” qualche anguilla allora la giornata era positiva.

I ricordi del mio amico era velati di tristezza. La sua fanciullezza era legata a quei brevi viaggi con i fassoni lungo lo stagno, a quei decisi richiami di avvolgere bene la lenza palamite, di fare attenzione agli ami posti nei cesti con i piccoli granchi agganciati ai ferri. Poi la  scelta di lasciare l’isola, cercare di imparare un altro mestiere, ma restare laggiù con il cuore, perché le sue radici erano fatte di strade che solcano il mediterraneo e che lo legavano a quelle sottili gondole di paglia.

La Sardegna  può apparire selvaggia, ma le sue colture di orzo e frumento riescono ancora a colorare le sue distese terriere, le sue spiagge bianche – con quei sassolini levigati che  scivolano sotto i piedi – trasmettono un senso di tranquillità, come se lì fosse il tuo porto sicuro.  Una sicurezza figlia del crocevia di civiltà, culture e tradizioni,  attestata anche dai fassoni:  testimonianza che non vuole e non deve morire.

Per chi desidera approfondire l’argomento, evidenziamo il Museo dell’intreccio mediterraneo di Castelsardo, città, come leggiamo sul sito del museo, che  si configura come sapere antico, non scritto ma ancora oggi documentato e tramandato dagli abitati del borgo medievale alle nuove generazioni.

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Una risposta

  1. giancarlobrunello ha detto:

    Imbarcazioni simili le ho viste al museo dei popoli primitivi che popolavano la Terra del Fuoco nella Patagonia meridionale

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