Il filo rosso della memoria

Il 2020 segna i 75 anni dalla liberazione del campo di concentramento di Auschiwitz-Birkenau e i 25 anni dal genocidio compiuto nei Balcani. Passato e presente s’intrecciano in questo macabro elenco degli orrori dei conflitti umani.

Tra i 50 anni che intercorrono fra i 2 tragici eventi,  si sono consumati i genocidi di Cambogia e Ruanda, mentre è in atto il probabile genocidio perpetuato nel Myanmar nei confronti della minoranza islamica Rohingya. Il 23 gennaio 2020 è arrivata la sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Onu che ordina al Myanmar (ex Birmania) di adottare “tutte le misure in suo potere” per prevenire il presunto genocidio contro la popolazione musulmana” e chiede al governo birmano di “attuare la serie di misure di emergenza previste dalla Convenzione sul genocidio del 1948”.

La storia contemporanea è costellata di campi di concentramento e/o sterminio verso gruppi etnici, religiosi o semplicemente nemici da sottomettere o annientare.  Da sempre i conflitti fra i popoli hanno superato la sfera militare con violente e crudeli ricadute sui civili: saccheggi, incendi di case se non d’interi villaggi, stupri. Poi, alla fine dell’Ottocento si è aggiunta la funesta sofisticazione dei campi di concentramento mutuati, secondo alcuni storici, dai tempi della colonizzazione europea nelle Americhe del XVI secolo.  A Cuba nell’arco del secolo gli spagnoli schiavizzarono i circa 100mila indigeni dell’isola, sterminati oltre che dalle malattie dal lavoro forzato e dai genocidi.

“Nei conflitti coloniali – scrive Bruna Bianchi, professoressa presso l’Università Ca’Foscari di Venezia – le operazioni belliche non conobbero alcun limite … . Poiché tra le ‘società selvagge’ la guerra era crudele e non rispettava alcuna regola, nel muovere guerra ai popoli non civilizzati gli eserciti europei non erano tenuti a rispettare alcuna restrizione. Un nazionalismo aggressivo rafforzato dal razzismo giustificò metodi che implicavano lo sterminio”.

Su ispirazione dei primi colonizzatori, quindi, gli inglesi in Sudafrica nel corso della guerra anglo-boera (1899-1902), costruirono i campi di concentramento dove deportarono (e vi trovarono la morte) circa 40 mila boeri, (coloni di origine olandese) di ogni età e genere, dopo aver distrutto i lori raccolti e bruciate le loro case.

L’arcipelago Gulag

Nel Novecento con la Prima guerra mondiale furono i Francesi a costruire i campi dove rinchiudere i tedeschi e gli austriaci, mentre in Russia, con la rivoluzione di civile del 1917, Lenin (1870 – 1924) elaborava l’apparato di repressione contro tutti gli oppositori al nuovo regime dei Soviet, costituito da una vasta rete di campi di concentramento, alla quale introdusse, nel 1919 la sezione lavori forzati.

Negli anni Trenta l’apparato divenne istituzionale e fu indicato con il termine Gulag (acronimo di Gosudarstvennyj Upravlenje Lagerej – Direzione Centrale dei Lager). Gli oltre 300 campi furono teatro della campagna di deportazioni di massa di Stalin (1878 – 1953), passate alla storia come le Grandi Purghe.

Il Sistema Gulag  iniziò ad essere rivisto solo dopo la morte di Stalin, ma bisognerà arrivare agli anni Ottanta per assistere all’intera chiusura del cosiddetto Arcipelago Gulag, opera dello scrittore russo Aleksandr Solzenicyn, premio Nobel per la Letteratura 1970, arrestato e condannato nel 1945 a 8 anni di lavori forzati per propaganda antisovietica e per aver espresso pareri negativi su Stalin. È ancora incerta la cifra delle vittime del sistema Gulag, ma si stima che vi siano state deportate, nell’arco totale della sua esistenza, tra i 15 e i 20 milioni di prigionieri.

Raphael Lemkin che seppe definire lo sterminio armeno

E ancora nel corso della Prima guerra mondiale, avvenne la prima campagna sistematica nazionalista di sterminio, organizzata e condotta dai turchi (ancora Impero Ottomano) nel 1915 – 16 contro la popolazione armena: un milione e mezzo ne morirono nei campi di concentramento. L’Impero, minacciato dalla Russia, temeva che i circa 2 milioni di sudditi armeni (cristiani) potessero allearsi con gli slavi ortodossi.

Per l’opinione pubblica dell’epoca lo sterminio del popolo armeno sembrò una situazione nuova e il giurista polacco Raphael Lemkin (1900 -1959) per definirlo, utilizzò per la prima volta il termine genocidio (1944), inteso come “sistematica distruzione di un popolo, una stirpe, una razza o una comunità religiosa”.

Jan Karski, il testimone inascoltato

Genocidio che si ripetè con il nazismo di Hitler in Germania, prima e soprattutto durante la Seconda guerra mondiale, con i campi di sterminio il cui scopo, oltre al lavoro forzato, era la morte programmata nelle camere a gas per gli ebrei, zingari, omosessuali, deboli di mente, oppositori politici.

Uno sterminio industrializzato, questo è il triste primato dei campi tedeschi, che produsse 11 milioni di morti, dei quali 6 erano ebrei.  Un orrore inimmaginabile anche per i contemporanei di quei bui giorni di guerra, un orrore che, paradossalmente, non mise fine all’orrore stesso, come dimostra la storia di uno dei primissimi testimoni diretti dei campi.

Nel 1942 Jan Karski (1914 – 2000), combattente della Resistenza polacca, elaborò due resoconti speciali, frutto delle sue missioni: uno dal ghetto di Varsavia, dove si era infiltrato vestendosi di stracci e l’altra in un campo di concentramento, dove invece era entrato travestito da guardia e dal quale poi riuscì rocambolescamente a fuggire.

Testimone oculare delle atrocità consumate nei campi di concentramento e di sterminio tedeschi su suolo polacco, in tale veste il premier Sikorski inviò Karski a informare gli Alleati (britannici e statunitensi) di ciò che stava accadendo in Polonia agli ebrei, ma i Grandi non gli credettero (o formalmente non gli credettero). Nel 1944 con ancora la guerra in corso, Karski affidò le sue missioni al libro La mia testimonianza davanti al mondo.

Il libro non ebbe fortuna (in Italia sarà pubblicato dall’Adelphi soltanto nel 2013, traduzione Luca Bernardini) e Karski sarà riscoperto dopo decenni, negli anni Settanta, dal regista francese Claude Lanzmann (1925 – 2018) con il suo famoso film Shoa, distribuito negli anni Ottanta, e rilanciato in Italia dalla graphic-novel scritta dal giornalista Marco Rizzo e illustrata da Lelio Bonaccorso, intitolata L’uomo che scoprì l’olocausto (2014), che è al centro dell’incontro che i 2 autori avranno con il pubblico a Palermo presso il Palazzo delle Aquile, in occasione della Giornata della Memoria (27 gennaio). Mentre l’Istituto Polacco dedica a Karski la mostra Una missione per l’umanità presso la Casa della Memoria e della Storia di Roma, fino al 27 febbraio 2020.

Il termine genocidio di Lemkin fu introdotto nel linguaggio giuridico e recepito nel diritto internazionale (nonché in quello interno da numerosi Paesi) e rappresentò uno dei cardini del processo di Norimberga (serie di processi svoltesi dal 1945-1946 contro i nazisti responsabili della guerra e della Shoa).

La memoria non è il ricordo

Lo sterminio degli ebrei del Novecento viene chiamato Shoah (dalla Bibbia – tempesta devastante) o olocausto (forma di sacrificio praticata nell’antichità soprattutto nelle religioni greca ed ebraica, in cui la vittima veniva bruciata). Fu entrambe le cose: una tempesta devastante che bruciò tutti gli esseri umani che ne furono coinvolti.  Poi si disse “Mai più!”. E invece l’orrore si ripeté: in Cambogia (altro genocidio) negli anni Settanta, in Ruanda, genocidio etnico nel 1994 e nei Balcani l’anno successivo, con il genocidio dei musulmani (il Massacro di Srebrenica). Oggi si teme il genocidio contro i Rohingya.

A quando, allora, il mai più?  I fatti dimostrano quanto sia difficile per l’uomo abbattere il sentimento di sopraffazione sull’altro.  Questo breve excursus nasce dal desiderio di rendere omaggio alla Giornata della Memoria, alle memorie di tutti i gruppi di persone vittime dei genocidi. Perché le commemorazioni non perdano il loro profondo significato di memoria. “La memoria non è il ricordo – diceva il testimone della Shoa, Piero Terracina, recentemente scomparso – Il ricordo si esaurisce con la fine delle persone. La memoria, invece, è come un filo che lega il passato al presente e si proietta nel futuro condizionandolo. Soltanto se facciamo memoria del passato, potremmo evitare che il passato ritorni”.

 

Fotografie dall’alto: 1) Memoriale del Massacro di Srebrenica; 2) Lo scrittore russo Aleksandr Solzenicyn, premio Nobel 1970, condannato ai lavori forzati per dissidenza politica e autore dell’Arcipelago Gulag; 3) Raphael Lemkin, giurista polacco, il primo a indicare gli stermini con il termine genocidio; 4) Jan Karski testimone oculare dei campi di sterminio tedeschi, non creduto dagli Alleati; 6)da sinistra Piero Terracina, recentemente scomparso,  con Sami Modiano entrambi sopravvissuti alla Shoah e testimoni della memoria

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