Primo Levi. Questo è un uomo
11 aprile 2017. Sono trascorsi 30 anni dalla morte di Primo Levi. Eppure il ricordo della notizia della sua scomparsa, ricevuta all’improvviso dal notiziario serale della Rai, ha il sapore amaro dell’attualità.
L’immagine della tromba delle scale è vivida, così come la sensazione di sperdimento nel pensare al sentimento di violenta solitudine e disperazione che deve aver accompagnato l’altrettanto violenta quanto tragica ultima decisione di Primo Levi.
Primo Levi non ha lasciato scritto niente. I motivi che lo spinsero a togliersi la vita sono rimasti sconosciuti. A distanza di tutti questi anni ci s’interroga ancora. Nel febbraio 2017 la Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University insieme al Centro Primo Levi ha organizzato la conferenza “To be or not. Considering Primo Levi’s Death”, imperniata sull’indagine letteraria compiuta dal professor Uri Cohen, che ha definito la decisione del grande scrittore “una lacuna definitiva alla fine della sua vita”.
Molti stentato a capire, quasi fosse inconcepibile che un sopravvissuto di Auschwitz, qual era Primo Levi, potesse suicidarsi. Forse per chi conosceva lo scrittore attraverso le sue opere e le sue interviste, per quella sua mente analitica e logica da uomo di scienze qual era, per il suo impegno incessante di testimone dell’orrore, nonostante la sofferenza palpabile dava l’impressione di avere la forza di portare la sua esistenza alla fino fine naturale.
Non è rimasto sorpreso invece chi Levi lo conosceva di persona e profondamente. La giornalista Tullia Zevi (1919-2011), nella sua biografia Ti racconto la mia storia, dice: “ Primo levi era un uomo sempre sull’orlo dell’abisso, e soffriva di pesanti depressioni. Annarita, sua sorella, mi diceva che anche se non ne parlava mai, non riusciva a convivere con l’indelebile memoria dei campi. Viveva in un palazzo con la scala a chiocciola. Quando il peso di quello che devi sopportare è troppo grande, senti l’attrazione del nulla, come per poterti scrollare di dosso questo cagnaccio rabbioso. In quella casa con le scale a tromba il vuoto l’ha chiamato a sé. In non credo che si sia buttato, deve essere caduto giù come colto da una vertigine fortissima”.
Il “caso cieco”
Primo Levi, nato a Torino nel 1919, era stato deportato ad Auschwitz nel febbraio 1944. Vi trascorse un anno, fino a gennaio del 1945.
” Com’era riuscito a sopravvivere al campo?” Era una domanda che gli veniva posta frequentemente, rispondeva che non c’erano “regole generali”, salvo entrare nel lager in buona salute, capire il tedesco e avere dalla propria parte “il cieco caso”.
Il cieco caso a Levi, si era rivelato in due occasioni. La prima volta fu quando incontrò il muratore italiano Lorenzo Perrone, che gli procurò abiti e cibo, sottraendolo dalla sua razione per 6 mesi e, la seconda volta, l’essersi ammalato durante la detenzione “una volta sola, ma al momento giusto”. Quando nel gennaio del ’45 i tedeschi, sotto la pressione delle truppe russe ormai prossime, evacuarono il campo, vi lasciarono gli ammalati, fra i quali c’era Primo Levi colpito dalla scarlattina. Gli evacuati, costretti a raggiungere a piedi altri campi di concentramento, già stremati dalle sofferenze e dagli stenti precedenti, morirono quasi tutti durante il cammino.
La necessità di ricordare
Una volta libero, nel giugno del 1945 Levi intraprende il viaggio per tornare in Italia: un viaggio lungo e labirintico che terminò nell’ottobre dello stesso anno, narrato nel secondo libro dello scrittore torinese La tregua (1963).
Giunto in Italia, Primo Levi, ossessionato dai ricordi di quanto visto e vissuto nel lager, sente l’urgenza di testimoniarli e, quasi, di getto scrive Se questo è un uomo, un libro che ha scarso riscontro nella sua prima pubblicazione del 1947, per editore De Silva.
La trascuratezza dei lettori e dei grandi editori nei confronti del libro inducono Levi a mettere da parte la scrittura, per dedicarsi al suo lavoro di chimico (era riuscito a laurearsi, nonostante le leggi razziali, nel 1941 a Torino). Ma non perde il suo impegno di testimone.
Primo Levi è il primo sopravvissuto dei campi di sterminio che va nelle scuole medie per raccontare ai ragazzi l’apocalisse vissuta. Spinto dalla convinzione della “necessità di ricordare”, sul “dovere di non dimenticare” perché, come scrisse “Se il mondo si convincesse che Auschwitz non è mai esistita, sarebbe più facile costruire un secondo Auschwitz e nulla assicura che divorerebbe solamente gli ebrei”.
Ed è proprio questo suo impegno costante di testimone, che lo riporta alla scrittura. Nel 1957 ,nel corso di una mostra sulla deportazione di grande successo, Primo Levi si ritrova circondato da una moltitudine i giovani che lo interrogano sul suo vissuto da deportato. Sulla scia di tanto interesse ripropone il libro Se questo è un uomo all’editore Einaudi, che questa volta lo accetta e lo pubblica nella collana Saggi. Da allora non cesserà mai di essere ristampato sia in Italia sia all’estero.
Lo scrittore e lo scienziato: due anime ben saldate dalla dignità professionale
Iniziano così le vite parallele di Levi, di chimico e scrittore, “due anime in un corpo” come le definisce e riporta lo stesso scrittore, in una conversazione-intervista con lo scrittore statunitense Philip Roth (da sinistra nella foto). Lo scrittore e lo scienziato. Entrambe le professioni, portate avanti con lo stesso impegno e serietà, entrambe con un valore “fondamentale” per la sua vita.
Come chimico, direttore di un’azienda specializzata nella produzione di smalti isolanti per conduttori elettrici di rame, negli anni ’60-70’ è fra i pochi specialisti al mondo di quel ramo. Come scrittore nell’olimpo internazionale con Se questo è un uomo.
Due anime sì, ma non scisse, ben “saldate” dalla convinzione di Primo Levi che il lavoro è essenziale perché “l’uomo normale è biologicamente costruito per l’attività”. Molto distante “dall’orrenda parodia del lavoro” afferma Philip Roth “senza scopo e senza senso; l’orrenda punizione che porta alla morte tormentosa del Arbeit Macht Frei (Il lavoro rende liberi, ndr) inciso dai nazisti all’ingresso di Auschwitz”.
Tutta l’attività letteraria di Levi, sostiene Roth è “tesa a restituire al lavoro il suo senso umano; a redimere la parola Arbeit dall’irridente cinismo con la quale i nazisti l’avevano sfregiata”. Lo dimostra il protagonista de La chiave a stella (1978), Faussone, alter ego di Levi, nella battuta “Ogni lavoro che comincio è come un primo amore”. Faussone, afferma Roth, è “l’uomo lavoratore, reso realmente libero, attraverso la sua fatica”. Primo Levi, approva le constatazioni di Roth e ribadisce che “il lavoro, come l’ozio, senza scopo. provoca sofferenza e atrofia” ma nota un “fenomeno curioso: il bisogno del lavoro ben fatto, talmente radicato da spingere a fare bene anche il lavoro schiavistico, anche ad Auschwitz. Come nel caso del muratore italiano, Lorenzo Perrone, che detestava i tedeschi, la loro lingua, il loro cibo, la loro guerra, ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza per dignità professionale”.
“Mettiti alla prova!”
Nel 1975 Primo Levi raggiunge l’età della pensione. Lascia l’azienda chimica e si dedica completamente alla scrittura. Lascia “l’anima numero 1” e si sente come “nato una seconda volta”. Sempre nel ’75 esce la raccolta di racconti con il titolo Il sistema periodico. Segue il già citato libro La chiave a stella che gli vale il premio Strega. Nell’1982 è la volta di Se non ora, quando? una novità nella letteratura di Levi. Un romanzo “picaresco” nato da una sorta di auto-verifica delle proprie capacità creative. “Dopo tanta autobiografia aperta o mascherata” dice di sé Levi, raccontando la genesi del libro, era giunto il momento di rispondere alla seguenti domande “sono o no uno scrittore a pieno titolo, capace di costruire un romanzo, creare personaggi, descrivere ambienti in cui non ero stato? Mettiti alla prova!”.
Ma per l’ultima fatica letteraria Levi torna al tema dell’Olocausto con il saggio I sommersi e i salvati. Levi torna ad analizzare il comportamento delle persone ad Auschwitz, confrontandolo con esperienze storiche analoghe. Si sofferma sulla descrizione delle “zone grigie”: partendo dalle considerazioni degli ebrei che nei lager, corrotti dai nazisti, lavoravano per loro contro i prigionieri dei campi, spiega i meccanismi che si creano tra gli oppressori e gli oppressi e che vengono replicati nella normale quotidianità.
La facoltà del pensiero per essere perfettamente infelici
Ancora l’Olocausto, ancora i suoi ricordi indelebili delle atrocità compiute dagli uomini ad altri uomini. Ancora a cercare di darsi e dare una spiegazione alla crudeltà della natura umana.
“I disagi materiali, la fatica, la fame, il freddo, la sete, tormentando il nostro corpo, paradossalmente riuscivano a distrarci dall’infelicità grandissima del nostro spirito” rammentava Levi, tornando ai giorni di Auschwitz “non si poteva essere perfettamente infelici. Lo dimostra il fatto che nei lager il suicidio era un fatto assai raro. Il suicidio, proseguiva Levi è un fatto filosofico, è determinato da una facoltà di pensiero. Le urgenze quotidiane ti distraevano dal pensiero: potevamo desiderare la morte ma non potevamo pensare di darci la morte. Io sono stato vicino al suicidio, all’idea di suicidio, prima e dopo il lager, mai dentro il lager”.
Ha vinto, dunque, la facoltà di pensiero; tanto esercitata nel corso dei 40 anni vissuti “fuori dal lager”. L’ha reso perfettamente infelice al punto da non resistere al richiamo del vuoto della scala a chiocciola. Era l’11 aprile del 1987.