Ius scholae. Valorizziamo il fattore X

In questa torrida estate segnata da un’approssimata crisi di governo la questione dello Ius Scholae riscalda i banchi parlamentari. Si tratta di un testo di riforma  che prevede la concessione della cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati in Italia o giunti sul territorio prima del compimento dei 12 anni, regolarmente residenti nel nostro paese che abbiano frequentato almeno 5 anni di studio in uno o più cicli scolastici.

Questa è la novità rispetto alla norma vigente ( Legge 91 del 1992) che, invece, decreta il diritto di cittadinanza alla prole di almeno un genitore italiano, il cosiddetto ius sanguinis. Chi invece non ha la fortuna di avere le vene segnate dal nobile sangue deve armarsi di pazienza, attendere il 18esimo anno di età, per iniziare il farraginoso iter burocratico. Un vero e proprio tour de force.

In primis, si necessita la dichiarazione di residenza in Italia fino alla maggiore età senza interruzione alcuna. Già questa è una prerogativa scomoda, viste le difficoltà abitative e le scorrettezze in merito. Comunque, laddove si avessero tutte le carte in regola, perché aspettare tanto?

Qualcuno chiosa che la cittadinanza è un traguardo da conquistare. Insomma, a rigor di metafora, per diciotto anni si può indossare la maglia rosa, e solo al termine del giro si può aspirare all’ambito titolo. Poi, visto che la vita è un continuo esame, si suggeriscono emendamenti che prevedono prove di conoscenza delle variegate tradizioni italiane. Ma un italiano doc, pescato a caso, saprebbe davvero rispondere a tali quesiti? Inoltre, date le caratteristiche regionali dei nostri usi e costumi, il candidato dovrebbe avere una preparazione multi italica?

Dunque, i fautori del congelamento della questione ribadiscono che il diritto di cittadinanza sarebbe un non problema, non sarebbe altresì una priorità rispetto alla guerra, al caro bollette, alla pandemia di luglio. Evidentemente si vuole continuare a ignorare che i bambini stranieri sono ormai una congrua fetta dell’utenza scolastica, una fetta che tuttavia non gode degli stessi diritti.

Ad esempio,  per studenti e studentesse senza cittadinanza può essere difficile accedere alle attività extra scolastiche come gite scolastiche e competizioni sportive. Ma la scuola non dovrebbe essere inclusiva? Come pensiamo di eliminare la discriminazione dai corridoi delle nostre istituzioni scolastiche se non la cancelliamo dalle nostre aule parlamentari?

Il tema dell’acquisizione della cittadinanza è molto delicato in quanto non si tratta solo di un diritto da riconoscere, una sorta di benefit per lo straniero. Piuttosto i benefici sono a largo spettro in quanto influiscono direttamente sulla società che accoglie. Probabilmente uno studente che non si sente ospite avrà un rendimento scolastico più lineare; probabilmente saprà scegliere in maniera agevole la successiva carriera formativa e professionale; probabilmente riuscirà a inserirsi nel mercato del lavoro; probabilmente diventerà un buon cittadino. Probabilmente sarà un sano modello come un cittadino italiano per natura.

Allora, sarebbe bene ricordare che la democrazia è partecipazione a un’identità comune, sebbene multiforme. La coappartenenza a culture diverse dovrebbe essere una risorsa, quel fattore X utile e necessario a sviluppare non soltanto il senso di cittadinanza italiana, bensì un’idea di cittadinanza globale, sempre più globale…

 

 

 

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