Genitori e figli: palla in rete… non digitale
Il mondo “WhatsApp” sempre più pervasivo ha travolto e stravolto molte relazioni e comunità. Iniziamo da quella primordiale, quella dei genitori.
Sempre più diffuse le chat tra genitori e genitori, tra docenti e genitori, tra figli e genitori. Ogni occasione è lecita per creare un famigerato gruppo che, nei momenti più improbabili, lancerà il suo fatidico squillo/trillo, che dir si voglia, per annunciarci una qualche informazione.
Genitori dunque, sempre più social-mente impegnati in uno scambio di notizie sui propri figli. Compiti, verifiche, voti, tutto diviene pubblico e pubblicabile. Una comunicazione che perde la sua vocazione originaria: produrre senso reciproco. Così la dialettica di classe digitalizzata può diventare fonte inesauribile di polemiche talvolta inutili che, come valanghe improvvise, finiscono per travolgere le stessa finalità della comunicazione.
Troppo spesso forse, ci dimentichiamo che la ricezione e l’interpretazione di un messaggio, presuppone una capacità analitica che sa correlare un determinato contenuto all’impostazione della voce, al tono, allo sguardo, ai gesti insomma all’espressione nella sua complessità e totalità. Quindi leggere non significa per forza aver com-preso il senso di un messaggio.
I social network inibitori di dinamiche naturali
È innegabile che possa essere un bene sapere in tempo reale cosa accade: se il riscaldamento in una scuola è fuori uso o se si avvertono scosse di terremoto; per intervenire subito, a salvaguardia della salute fisica e mentale del proprio figlio. Una tutela, come tante oggi, di cui si fa garante la tecnologia!
La nascita e il proliferare di raggruppamenti WhatsApp dai nomi più disparati: “orsetti”, “pulcini” “IIB” “IVA” “i piccini crescono” “le pulci hanno la tosse”, pedagogicamente pensati per agevolare le comunicazioni istituzionali, si trasformano in agorà di effimere diatribe, sorte magari per un libro dimenticato o per una penna non data in prestito al compagno di banco.
Veicolare messaggi per favorire genitori sempre più presenti nella vita dei piccini; sebbene si tratti di una pre-senza, divenuta incapacità di stare a guardare in silenzio, lasciando che talune dinamiche seguano il loro normale corso.
Protezione o deresponsabilizzazione?
Cosicché quella che può apparire come un atto di protezione, in realtà si tramuta in deresponsabilizzazione.
Il risultato di tale fenomenologia dei rapporti è il decentramento delle responsabilità. Si cerca di fare meno fatica da entrambe le parti: figli agevolati da un controllo costante che li rende ahimè meno autonomi e genitori che, inconsapevolmente, con la loro presenza ipertrofica si separano dal ruolo di educatori. Inoltre, questa illusione di presenza digitale finisce per decretare l’invadenza a paradigma universale.
L’esaltazione, ad esempio, dei successi degenera nel narcisismo di chi, oltre a chiacchierare davanti a scuola, vuole lasciare il segno di famiglia sulla piattaforma. Del resto verba volant scripta manent.
Come salvarsi?
Lasciare il gruppo social sembrerebbe la soluzione. Ma l’uscita silente potrebbe essere scambiata per fragile snobismo o per insolita noncuranza. Allora forse l’indifferenza da non confondersi con l’ignavia che Dante condannò nel limbo, potrebbe essere la via d’uscita.
Un esempio, una storia. Proprio ieri una mia amica mi ha invitato a vedere la partita di pallone del figlio. Luca, sei anni, impegnato nel ruolo di portiere. Un compito di primaria importanza: difendere la propria porta.
Nonostante fosse un bravo atleta, come dimostrato negli allenamenti, il povero bambino si è trovato nell’angusta situazione di subire svariate reti. Partita persa e fiume di lacrime a seguire. Una disperazione dovuta al senso di colpa. Usciti dal campo, la mamma è stata per un attimo presa dalle esondazioni di commenti in chat “ colpa dell’allenatore” “Ke brutta partita” “c’è ki non sa giocare” “il problema ke fa giocare tutti”. Insomma i soliti assiomi della tuttologia imperante, mentre Luca continuava a piangere.
Sebbene l’orgoglio fosse ferito e la voglia di rispondere a presunti colpi bassi fosse forte, la mia amica con gesto deciso ha riposto il telefono in borsa e ha provato a consolare l’inconsolabile.
“Il calcio è un gioco di squadra” ha detto “ pertanto l’esito di una partita dipende da tutti i giocatori non solo da te” Allora il giovane portiere, asciugandosi le lacrime, ha detto “ma io non ho parato” . E lei “ va bene tu hai subito goal, ma la difesa non ha salvaguardato la porta”. Silenzio, Luca senza più singhiozzare ha cominciato a riflettere. Le gote rosse hanno cominciato a rischiararsi. Da soli, lontano dai commenti social, hanno trovato la chiave giusta per superare la delusione. Palla in rete! Li ho guardati allontanarsi e ho pensato a quanto è difficile essere genitori. Ieri, oggi, domani… .