Alzheimer. I danni del lockdown ma la speranza nei progressi terapeutici
La pandemia che ha avuto un enorme impatto sulla qualità di vita dei pazienti con Alzheimer e dei caregiver: le restrizioni imposte dal lockdown, infatti, hanno indotto un peggioramento dei disturbi comportamentali nei pazienti affetti da demenza.
Lo dimostra la ricerca Behavioral and psychological effects of Coronavirus disease-19 quarantine in patients with dementia del Gruppo di Studio sul COVID-19 della Società Italiana di Neurologia per le demenze (SINdem), un sondaggio su 4.913 familiari di persone affette da demenza seguite in 87 Centri specializzati in tutta Italia, i cui risultati sono stati appena pubblicata su Frontiers Psychiatry.
“Dallo studio – ha affermato Amalia Cecilia Bruni, neurologa, scienziata e presidente eletto della SINdem – è emerso che, a un mese dall’inizio della quarantena, il 60% dei pazienti ha subito un peggioramento dei disturbi comportamentali preesistenti o la comparsa di nuovi sintomi neuropsichiatrici. In oltre un quarto dei casi questa nuova condizione è stata tale da richiedere la modifica del trattamento farmacologico. In generale i sintomi riportati più frequentemente sono stati l’irritabilità (40%), l’agitazione (31%), l’apatia (35%), l’ansia (29%) e la depressione (25%)”.
Il tipo di disturbo neuropsichiatrico prevalente è risultato essere influenzato da variabili tra cui il tipo di malattia che ha causato la demenza (Malattia di Alzheimer o altre forme) e la sua severità, nonché dal genere sessuale. Ad esempio, avere una Malattia di Alzheimer ha aumentato il rischio di un incremento di sintomi d’ansia e depressione nelle fasi lievi e moderate di malattia e soprattutto nel genere femminile.
Anche i familiari dei pazienti hanno risentito in modo significativo degli effetti acuti del lockdown con evidenti sintomi di stress in oltre il 65% degli intervistati.
Gli effetti dell’isolamento indotto dal lockdown, con i cambiamenti della routine quotidiana e la riduzione di stimoli emotivi, sociali e fisici, hanno rappresentato un detonatore per l’incremento rapido di disturbi neuropsichiatrici tra le persone più a rischio quali sono gli anziani con deterioramento cognitivo.
I dati emersi vanno ora considerati in funzione della riorganizzazione dei servizi assistenziali per le patologie neurodegenerative che dovrà tenere conto della necessità di monitoraggio clinico e del supporto a distanza in modo continuativo e flessibile in base allo scenario epidemiologico futuro.
Questa prima analisi dei dati ha riguardato una parte della ricerca del gruppo di studio SINdem che ha valutato anche le conseguenze acute del lockdown sul peggioramento cognitivo e sulle performance fisiche (i cui risultati saranno pubblicati a breve).
La nuova speranza terapeutica
A conforto, però, la stessa SIN), in occasione della Giornata Mondiale contro l’Alzheimer – 21 settembre – ha espresso fiducia sulle nuove opportunità terapeutiche che si prospettano all’orizzonte.
“Abbiamo una nuova speranza, grazie alla ricerca scientifica – ha spiegato Gioacchino Tedeschi, professore in neurologia e presidente SIN – l’FDA ha proprio di recente accettato di esaminare gli studi condotti sul farmaco aducanumab, un anticorpo monoclonale che si è dimostrato efficace nella rimozione dell’accumulo di beta amiloide, causa della patologia, nei soggetti che si trovano in una fase molto iniziale della malattia”.
Fino ad ora le terapie per la cura dell’Alzheimer sono in grado di mitigarne solo in parte i sintomi, ma non hanno alcun impatto sulla progressiva evoluzione della demenza, una volta che questa si sia manifestata, per questo questo approccio mirato ai possibili meccanismi di malattia si presenta molto promettente per i pazienti.
Nel mondo la malattia di Alzheimer colpisce circa 40 milioni di persone e solo in Italia ci sono circa un milione di casi, per la maggior parte over 60. Oltre gli 80 anni, la patologia colpisce 1 anziano su 4. Questi numeri sono destinati a crescere drammaticamente a causa del progressivo aumento della aspettativa di vita, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo: si stima un raddoppio dei casi ogni 20 anni.