Phyllis Omido. La rabbia di una madre vince sull’industria del piombo
Nei giorni scorsi in Kenya un tribunale locale ha stabilito il risarcimento di 12 milioni di dollari a favore dei residenti di Owino Uhuru, baraccopoli di Mombasa, per i danni provocati alle persone e all’ambiente dalla fusione di piombo dell’azienda indiana Metal Refinery Pez.
A riferirlo è avvenire.it, specificando che la battaglia giudiziaria è stata condotta da Phyllis Omido, giovane donna africana fondatrice nel 2009 dell’Associazione Cjgea (Center for Justice, Governance and Environmental Action – Centro giustizia, autorità e azione ambientale).
Tutto ha avuto inizio quando Omido, fresca di laurea in Gestione Aziendale conseguita presso l’Università di Nairobi e trasferitasi a Mombasa, comincia a lavorare presso la Metal refinery Epz, come addetta alle relazioni con la comunità. Si rende conto del disastro ambientale quando apprende che allattando ha trasmesso al figlio neonato il piombo. Portato con urgenza all’ospedale, al piccolo Kingdavid Jeremiah Indiatsi viene diagnosticato un avvelenamento da piombo che Omido relaziona con le emissioni tossiche dell’azienda. Non perde tempo, commissiona una valutazione dell’impatto ambientale della Metal Refinery Pez e fonda l’organizzazione Cjgea nel 2009 con la quale ottiene nel 2014 la chiusura dell’azienda e l’anno successivo vince il Goldman Environmental Prize, il premio più prestigioso assegnato agli attivisti ambientali.
Era dal 2007 che la Metal Refinery Pez, situata al centro della baraccopoli, bruciava le batterie automobilistiche per ricavarne il piombo. L’incinerazione disperdeva i fumi tossici nell’aria e nelle acque reflue. Dopo la diagnosi del figlio e ricevuti i risultati della valutazione ambientale la Cjgea fece fare gli esami del sangue a 3 bambini della baraccopoli presi a caso. Ciascuno di loro mostrò livelli di piombo superiori al livello di sicurezza secondo gli standard stabiliti dai Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (Centers for Disease Control and Prevention – CDC).
La battaglia è stata lunga e non priva di pericoli. All’inizio delle proteste le autorità locali osteggiavano le attività della Cjgea. Nel 2012 Omido in compagnia del figlio fu avvicinata da 2 uomini minacciosi dai quali riuscì a fuggire. Più volte arrestata con gli altri membri dell’Associazione, le autorità locali arrivarono a confiscare i documenti e il computer dagli uffici della CJGEA mentre, dopo una delle tante manifestazione, Omido veniva messa nuovamente in prigione e accusata di ‘incitamento alla violenza”. L’imputazione comportò un’altra lunga battaglia legale fino a che un giudice, – limitandosi ad applicare la legge, come ci tenne a rimarcare – archiviò il caso.
Spinta dalle difficoltà e dagli ostacoli, la CJGEA chiese aiuto all’organizzazione internazionale Human Rights Watch, riuscendo a portare la causa all’Onu. Fu allora che il Senato del Kenya decise di verificare le condizioni dei rifiuti tossici di Owino Uhuru e nel gennaio del 2014 ne ordinò la chiusura.
Nel 2016 iniziava la causa per ottenere il risarcimento dei danni subiti, su richiesta della CJGEA e di tutti i residenti della baraccopoli.
Ora, dopo 4 anni è giunta la sentenza favorevole emessa dal giudice presso la Corte di Mombasa per la terra e l’ambiente, Anne Omollo che, scrive avvenire.it, ha decretato che “la popolazione ha il diritto a un ambiente sano e a un’acqua pulita, come recita l’articolo 43 della Costituzione” e che il pagamento dei 12 milioni di dollari, da distribuire fra i residenti di Owino Uhuru, sarà a carico di “alcuni organi della Stato e delle società private coinvolte”.
In Germania la vicenda di Phyllis Omido è stata raccontata da Andrea C. Hoffmann nel libro, pubblicato nel 2019 con il titolo Con la rabbia di una madre: la storia dell’africana Erin Brockovich (in lingua originale: Mit der Wut einer Mutter: Die Geschichte der afrikanischen Erin Brockovich).