Rete violenta. Alla ricerca della legge sperduta

dal film "Cyberbully".

dal film “Cyberbully”.

Siamo tutti responsabili, nessuno è responsabile. Il mantra dei nostri giorni in cui si susseguono episodi tragici di violenza sessuale, verbale, suicidi per vessazione e diffamazione ma la colpa si fonde come ghiaccio al sole e pervade l’intera società tra lo sgomento iniziale e l’assuefazione che lo succede.

Tiziana Cantone si toglie la vita a 31 anni nello scantinato di casa dopo un anno di persecuzione mediatica attraverso il web, il “Grande accusato”, l’invitato di pietra cui nessuno sembra poter rinunciare. Oltre ogni considerazione e dibattito socio-culturale, riflesso di una psicologia individuale e collettiva sempre più labile, si rischia di appannare le fondamenta stesse della nostra in-civiltà: lo stato di diritto che pone e im-pone diritti e doveri. Ma quali sono i diritti e i doveri della società “liquida”?

Io cittadino digitale, che mi esprimo mediante l’uso della “rete padrona” in che modo sono tutelato e salvaguardato? Un video dai contenuti sessualmente espliciti, auto prodotto e inviato a coloro che si considerano amici, successivamente divulgato senza il consenso del diretto interessato su ogni mezzo digitale a disposizione è un atto giuridicamente lecito, aldilà della brutalità dell’azione?

Nel momento in cui io inserisco un’immagine su un social network, su una applicazione di messaggistica istantanea, sto compiendo una sorta di trasferimento di proprietà, quell’immagine diventa proprietà del social o dell’applicazione che la veicola. L’ubriacatura digitale in particolare “da social” che ha obnubilato parte del genere umano, ci rende meno vigili nelle azioni che compiamo sul pianeta web. Ma ancora una volta, mi chiedo, chi ci tutela?

La pratica del cosiddetto sexting (invio di immagini hard tramite telefonino) è un fenomeno in ascesa tra i pre-adolescenti. Si calcola che tra gli under 14, 1 su 10 faccia girare immagine intime sul web. Una pratica superficiale che non prevede le conseguenze (oltre che la liceità del comportamento stesso) che scaturiscono da eventuale “revenge porn”, ossia la vendetta che scatta dopo una lite o la fine di una storia per cui si inizia a propagare il materiale sulla rete.

Recentemente, uno dei social più utilizzati, Facebook, aveva deciso di censurare la tristemente famosa foto che ritrae una bambina nuda vietnamita che fugge dalla guerra, bruciata dal napalm, come se potesse evocare sensazioni pedopornografiche. Una mossa, ritratta dopo poche ore. Quanti paradossi. Una foto storica è rimossa, ma un video privato che diventa virale e fonte di ludibrio pubblico viene tollerata.

E coloro che hanno commesso il reato? Ognuno di noi si sente libero di diffamare, di dileggiare un altro essere umano.Se non esistono confini etici nella nostra mente e nel nostro spirito, ovviamente c’è un profondo problema socio-culturale ed educativo, ma comunque si tratta di reati di violazione della privacy e di diffamazione e, come tali, vanno trattati.

Altrimenti ben presto ci ritroveremo in un rinnovato western in cui l’uso del grilletto è sostituito dai bit, ugualmente mortiferi.

Diritto all’oblio: interesse pubblico o lesione alla privacy?

Tiziana si è visto riconosciuto dal tribunale il diritto all’oblio in relazione ai video hard che la riguardavano che obbliga Facebook e altri social che non ancora non hanno provveduto, a rimuovere dal web, foto o apprezzamenti disdicevoli. Tuttavia, un’autentica beffa, il tribunale condanna Tiziana al pagamento delle spese processuale, somma che ammonta a 20.000 euro.

Ma ha senso parlare di diritto d’oblio in questa vicenda?Il diritto d’oblio a livello penale, consiste nel diritto di una persona a che non vengano divulgate notizie relative a vicende personali del passato che abbiano perduto il carattere di attualità e si riferisce alle notizie. Ma in questo caso, siamo di fronte a una notizia?

La notizia ha per oggetto l’utilità sociale e il pubblico interesse. Evidentemente non ci troviamo in nessuna delle due condizioni. Il diritto all’oblio traslato al mondo dei motori di ricerca, attuali aggregatori di notizie, indica il dovere di dare la possibilità ai propri utenti di cancellare i link e gli articoli che li riguardano nei casi in cui non vi aia nessun interesse pubblico, ma mera lesione della privacy.

Come ci ricorda l’Ansa, Google ha messo online una pagina per chi vuole richiedere la rimozione e a fine luglio i link ammontavano a 580 mila.

Social e motori di ricerca: diritto e società

I contenuti iconici e testuali che si inseriscono sul web hanno per loro natura un impatto esponenziale  per la reputazione di una persona rispetto a qualsiasi altro mezzo di comunicazione pertanto è quanto mai necessario che si stabiliscano delle norme effettive a cui corrispondono pene effettive. La superficiale spietatezza con cui, alcuni giovani  o meno giovani diffondono materiale privato o addirittura filmano stupri o violenze aberranti di altro tipo è il sintomo di una patalogia sociale, ma ciò detto non sottrae alcuna responsabilità civile e penale agli autori dei reati.

Forse non è allarmismo, dichiarare che ci troviamo in una situazione di emergenza giuridica e legislativa. Un autentico codice online da redigere e interpretare, in cui la valutazione di cosa sia una notizia o un prodotto “editoriale” gioca un ruolo fondamentale, non meno la regolazione del comportamento lecito o illecito.

Il lato spietato dell’uomo ovviamente non nasce con la rete, ma per le caratteristiche strutturali della stessa, potenzia in modo incalcolabile, la virulenza dell’azione.

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