Adozione mite. Finalmente anche in Italia
Recentemente è stata introdotta in Italia l’adozione mite anche se non è prevista nell’ordinamento giuridico italiano, né è regolamentata da una normativa propria; è piuttosto una derivazione della giurisprudenza che consente al minore adottato di mantenere i contatti con la propria famiglia di origini se ciò corrisponde all’interesse del minore.
Vale per i figli di genitori che si trovano nell’impossibilità di allevarli e curarli e per questo il giudice li affida ad una famiglia idonea che agisca esclusivamente nell’interesse del minore e facendo sì che i minori mantengano i legami affettivi e giuridici con genitori biologici a meno che non si verifichi il caso del totale abbandono del minore.
L’adozione avviene con il consenso dei genitori biologici o del tutore e dopo che le autorità competenti statali hanno verificato la reale impossibilità di accudirli.
La procedura
Per accedere all’adozione mite è necessario presentare domanda al Tribunale per i Minori di competenza con allegata la specifica documentazione del caso.
Gli adottanti, invece, devono presentare la dichiarazione di disponibilità per un affidamento di tipo famigliare ma pienamente consapevoli dell’eventuale ritorno del minore a vivere con la famiglia di origine allo scadere dell’affidamento. Il termine di durata massima di questo tipo di adozione è di 2 anni, ma può essere prorogato dal giudice competente. Quindi se la famiglia di origine dovesse dimostrarsi ancora inadeguata quella adottante deve essere pronta ad accogliere nuovamente il minore.
Si tratta sempre di un’adozione speciale, infatti i minori non sono dichiarati adottabili perché non sono orfani né in stato di abbandono totale: da cui il termine ‘mite’ perché prevede un percorso graduale che potrebbe risolversi con il ritorno del minore dai propri genitori biologici.
Il caso giudiziario e la condanna della Corte europea dei diritti umani
L’introduzione dell’adozione mite in Italia si deve a un caso giudiziario riguardante la sottrazione delle 2 figlie della giovane donna nigeriana Zhou, in Italia perché vittima della tratta, date in adozione e per di più a famiglie differenti.
All’origine del distacco madre-prole il ricovero d’urgenza in ospedale della figlia minore. Nel nosocomio la donna entrava in conflitto con il personale medico essendo in totale disaccordo con le cure a cui la piccola era sottoposta. Priva dell’interprete e del supporto di un mediatore sono nate incomprensioni culturali che hanno portato a una lunga vicenda processuale terminata in primo grado con la sentenza di adozione delle minori e la totale interruzioni dei rapporti con la loro madre, colpevole di non avere una casa né uno stipendio.
Il primo ricorso in appello è stato perso. Ma la sentenza portata alla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) – caso Zhou contro Italia – ha condannato per l‘ illegittimità dell’ interruzione totale dei rapporti.
La Cassazione
Il collegio di avvocati difensori del gruppo Melting pot Europa di cui fanno – parte Salvatore Fachile, Cristina Laura Cecchini – che da tempo segue casi simili che, purtroppo accadono spesso alle famiglie straniere – ha curato il procedimento depositato in Cassazione nel febbraio 2020. E la Corte Suprema ha sancito “il principio secondo cui, alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (nel rispetto del diritto alla vita privata e familiare sancito dalla Convenzione, devono essere ritenuti esistenti nel nostro ordinamento modelli di adozione ‘mite’ compatibili con la non recisione dei legami con il genitore biologico” spiega dal sito Cristina L. Cecchini.
Finalmente la soluzione. Quasi…
Nei giorni scorsi la Corte d’appello di Roma che ha deciso che la donna nigeriana potrà rivedere le sue figlie ora di 8 e 10 anni, diventando così il primo caso “concreto” in Italia di adozione mite, ponendo così fine a una lunga e complessa vicenda processuale.
“È una sentenza rivoluzionaria dell’ordinamento giuridico italiano” ha commentato il difensore Salvatore Fachile annunciando però che il caso tornerà in Cassazione perché la stessa sentenza impedisce alla madre di conoscere i cognomi assunti nel frattempo dalle figlie, per rispetto della segretezza delle famiglie adottive. “Una sbavatura di una sentenza che comunque mette fine a una bruttissima prassi”.