World Press Awards 2021. Un anno in sei immagini
La giuria del World Press Awards 2021, il concorso dedicato al giornalismo professionale, ha selezionato le immagini dell’anno 2020 e nominato i finalisti del contest.
La selezione ci mostra come la pandemia non ha fermato il fotogiornalismo, che ci fornisce quotidianamente gli avvenimenti del mondo con coraggio e maestria.
I candidati per la miglior fotografia dell’anno, sono riportati di seguito secondo la data dello scatto.
Oleg Ponomarev – 23 aprile 2020 – La transizione di Ignat
The Transition: Ignat (La transizione: Ignat). Il giovane Ignat, uomo trans gender, siede con la sua ragazza Maria a San Pietroburgo (Russia). Ha appena subito un attacco di bullismo dai suoi compagni di scuola.
Il ragazzo aveva mantenuto segreta la sua identità sessuale fino a quando ha deciso di confidarsi con lo psicologo scolastico, al quale aveva chiesto di mantenere il segreto. Ma presto tutto l’istituto è venuto a saperlo e per Ignat gli insulti e le umiliazioni sono diventate permanenti.
In Russia sono in tanti che, come Ignat, mantengono lo stretto riserbo sulla loro identità di genere, perché stigmatizzati dalla società; un atteggiamento rafforzato dallo stesso Governo che nel luglio 2020, con un emendamento inserito nella Costituzione, stabilisce che il matrimonio è un’unione soltanto se avviene tra un uomo e una donna. Non è stato approvato, invece, l’emendamento che avrebbe impedito alla persone transgender di cambiare il proprio status sui documenti legali, ma il loro genere non è legalmente riconosciuto per cui hanno difficoltà ad accedere alla sanità assistita durante la lunga fase della transizione. Ne sono tutelati contro la discriminazione.
Luis Tato – 24 aprile – Combattere l’invasione delle locuste nell’Africa orientale
L’immagine scattata il 24 aprile 2020 ritrae Henry Lenayasa, a capo dell’ insediamento di Archers Post nella contea di Samburu, in Kenya, mentre cerca di spaventare un enorme sciame di locuste che devastano l’area del pascolo.
Gli sciami hanno divorato il raccolto e la vegetazione in dieci paesi del Grande Corno d’Africa e dello Yemen.
All’inizio del 2020, il Kenya ha vissuto la sua peggiore infestazione di locuste del deserto in 70 anni. Sciami di locuste provenienti dalla penisola arabica sono migrate in Etiopia e Somalia, dove per via delle forti piogge autunnali e a un raro ciclone nel dicembre 2019, hanno trovato le condizioni ideali per la loro già rapida riproduzione.
Secondo le condizioni ambientali, le locuste producono da due a cinque generazioni all’anno. Il tempo umido prolungato incoraggia la riproduzione e la crescita di grandi sciami che viaggiano alla ricerca di cibo, che trovano nelle aree verdi e nei campi coltivati, devastandoli per la loro voracità.
Le locuste del deserto, Schistocerca gregaria, sono potenzialmente le più distruttive: gli sciami arrivano a viaggiare fino a 150 chilometri al giorno.
Già prima della invasione degli insetti, quasi 20 milioni di persone dell’Africa orientale hanno dovuto affrontare alti livelli di insicurezza alimentare per le periodiche siccità e inondazioni. Ai rischi dei cambiamenti climatici, dunque, si è aggiunta l’invasione delle cavallette.
Le restrizioni per la pandemia nella regione hanno rallentato gli sforzi per combattere l’infestazione poiché le catene di approvvigionamento di pesticidi sono state interrotte.
Evelyn Hockstein – 25 giugno 2020 – Dibattito sul Lincoln Emancipation Memorial
25 giugno 2020 – Washington (USA) – La protagonista dell’ immagine Anais che è a favore della rimozione dell’Emancipation Memorial e dibatte la questione con l’uomo a destra che, invece, la pensa diversamente.
Uno dei monumenti iconici della capitale degli States (e che s’intravede nello sfondo), rappresenta il presidente Abraham Lincoln che con una mano tiene il Proclama di Emancipazione e poggia l’altra sul capo di un uomo di colore, inginocchiato ai suoi piedi.
Nel grande dibattito (al quale sono seguiti molti fatti) sulla rimozione delle statue ritenute celebrazioni incongrue rispetto alla vera storia di chi raffigurano si svolge da anni, ma l’abbattimento dell’Emancipation Memorial abbraccia anche la questione del razzismo nei confronti degli afro-americani in America mai risolta e riesplosa con la morte inflitta da un poliziotto a George Floyd il 25 maggio 2020.
Il movimento Black Lives Matter (BLM) è a favore della rimozione (insieme ad altri monumenti) perché simbolo di una storia oppressiva, schierato a fianco di coloro che vedono nel Memorial un atteggiamento paternalista del presidente e una raffigurazione umiliante del nero, un’immagine che non rende giustizia al ruolo che la comunità afro-americana ha svolto per la propria emancipazione. Chi, invece, vuole mantenere il monumento sostiene che è un simbolo della liberazione dalla schiavitù ed abbatterlo equivarrebbe a cancellare la storia.
Nel febbraio 2021 la deputata Eleanor Holmes Norton, ha presentato al Congresso degli Stati Uniti un disegno di legge per far rimuovere la statua e portarla in un museo.
Lorenzo Tugnoli – 4 agosto 2020 – L’uomo ferito dopo l’esplosione del porto a Beirut
Nel tardo pomeriggio del 4 agosto, l’esplosione di 2750 tonnellate di nitrato di ammonio (pari a 3,3 gradi della scala Richter) stoccato in una nave del porto, distrugge e danneggia circa 6mila edifici di Beirut, capitale del Libano. Perdono la vita almeno 200 persone (numero non ancora accertato), ferite più di 6mila, sfollate circa 300mila.
La nave stava nel porto, senza misure di sicurezza, dal 2012 quando il governo libanese l’aveva confiscata per non aver ricevuto dal proprietario il pagamento delle tasse di attracco e di altri oneri. Dal 2014 al 2017 i funzionari della dogana avevano sollecitato più volte i tribunali libanesi a smaltire il pericoloso carico.
Nei giorni successivi all’esplosione, decine di migliaia di manifestanti hanno riempito le strade del centro di Beirut, alcuni scontrandosi con le forze di sicurezza e prendendo possesso di edifici governativi, in segno di protesta contro un sistema politico evidentemente riluttante a risolvere i problemi del Paese.
Ancora oggi non è stata individuata la causa dell’esplosione.
Mads Nissen – 5 agosto 2020 – San Paolo – Il primo abbraccio
Rosa Luzia Lunardi, 85 anni, è abbracciata dall’infermiera Adriana Silva da Costa Souza, presso la casa di cura Viva Bem di Sao Pauolo (Brasile). È il primo abbraccio che Rosa riceve da marzo, ossia da quando le case di cura in tutto il paese (e in molte altri parti del mondo) hanno vietato le visite per tenere a bada il contagio da Covid -19; agli assistenti è stato ordinato di limitare al minimo il contatto fisico con gli ospiti.
Poi, a inizio estate, le case di cure brasiliane adottano l’iniziativa The Hug Curtain (La tenda dell’abbraccio), ossia una tenda di o un tunnel di plastica posta all’entrata della struttura che permette agli ospiti di abbracciare i propria cari, evitandone però il contatto diretto.
Il nuovo coronavirus è stato registra per la prima volta a Wuhan, in Cina, alla fine del 2019 e da gennaio 2020 ha iniziato a diffondersi in tutto il mondo, ma soltanto l’11 marzo, l’Organizzazione mondiale della sanità ha elevato l’epidemia di COVID-19 a status di pandemia. La malattia, trasmessa principalmente attraverso il contatto ravvicinato, goccioline respiratorie e aerosol, da subito si è mostrata fatale per le persone di età superiore ai 70 anni.
In Brasile il negazionismo del presidente Jair Bolsonaro, sulla gravità della pandemia e sul pericolo rappresentato dal virus, ha minato le misure di quarantena adottate a livello statale e ha incoraggiato i brasiliani a continuare a lavorare. Il Brasile ha terminato l’anno 2020 con uno dei peggiori record a livello mondiale nella lotta contro il virus, con circa 7,7 milioni di casi segnalati e 195.000 decessi. Tra l’8 e il 9 marzo 2021 sono stati contati 1972 in un solo giorno; un record destinato ad essere superato.
Valery Melnikov – 28 novembre 2020 – Sputnik
Azat Gevorkyan e sua moglie Anaik vengono fotografati prima di lasciare la loro casa a Lachin, il 28 novembre 2020.
Molti gli armeni che sono stati a costretti a lasciare le aree che sarebbero dovute tornare sotto il controllo azero dopo la Seconda guerra del Nagorno-Karabakh. Il distretto di Lachin è stato l’ultimo (su tre) abbandonato dall’Armenia.
Il conflitto tra l’Azerbaigian e l’Armenia per la regione del Nagorno-Karabakh è ripreso a settembre 2020, dopo una pausa di 30 anni.
Quando negli anni Ottanta del Novecento, l’Unione Sovietica iniziava la sua parabola finale, la comunità di etnia armena nel Nagorno-Karabakh, parte dell’Azerbaigian, approfittò del vuoto di potere per entrare in Armenia. Ma proprio alla fine dell’URSS si generò un conflitto armato tra la maggioranza etnica del Nagorno Karabakh, sostenuta dalla Repubblica Armena e la Repubblica dell’Azerbaigian, che si consumò dal gennaio del 1992 e il maggio 1994. Nel corso del conflitto sono morte circa 20mila persone e un milione ha dovuto lasciare le proprie case. Mentre gli armeni vittoriosi dichiararono uno stato indipendente, portando in esilio circa 800.000 azerbaigiani.
Ma la questione è rimasta aperta e negli ultimi 30 anni poco è stato fatto per risolvere lo status del Nagorno-Karabakh, mentre dalle 2 parti si sono verificati periodici scontri militari, l’ultimo dei quali al confine nel luglio 2020 che ha innescato massicce proteste nella capitale dell’Azerbaigian, Baku, con migliaia di manifestanti che chiedevano che il paese entrasse in guerra con l’Armenia.
Il conflitto poi definito la Seconda guerra del Nagorno-Karabakh è iniziato il 27 settembre ed è continuato fino al 9 novembre 2020, quando è stato firmato l’accordo di tregua.
Le collezione fotografiche di ogni categoria del premio sono reperibili sul sito del premio: World Press Photo.