Obama incontra Hiroshima
Credo che non bisogna soltanto interrogarci su chi è stato vittima e chi carnefice, ma si debba cercare la verità. Io come essere umano devo pensare al futuro: io prima della bomba atomica ero militarista ed io aiutavo il Giappone ad andare in guerra ad uccidere le persone; oggi non voglio più diventare una persona che aiuta un paese ad uccidere le persone. A tutti quelli che sono in platea : se uno perde la coscienza di conoscere la verità, quella persona perde la pace (Suzuko Numata, sopravvissuta a Hiroshima, scomparsa nel 2011).
Mr President Obama con Michelle e le figlie è atterrato a Hiroshima. Visita storica. Simbolo di un passato da non ri-vivere e un presente-futuro rivolto ad un cambiamento radicale della politica sociale; oltre, almeno formalmente, alla “ragion di stato” per approdare allo “stato di ragione”.
Il 27 maggio 2016 impresso nella mente e nell’anima dei contemporanei è destinato a studiarsi nei libri di storia dalle future generazioni. Il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti si reca a Hiroshima, per la prima volta dal lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Di fronte al Memoriale della pace in onore alle vittime delle bombe atomiche, il Presidente americano sembra lanciare una sfida di innovazione politica e sociale. Un atto di peace keeping che rivoluziona il concetto di equilibrio geopolitico. A parole, ovviamente. Ma potrebbe essere un inizio.
“Il progresso scientifico deve salvare le vite, non distruggerle. La crescita tecnologica deve essere accompagnata da una rivoluzione morale, dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare alla guerra come a una soluzione. Ecco perché siamo venuti qui, a Hiroshima….Noi siamo esseri umani e quello che ci distingue è che non siamo vincolati da un codice genetico a commettere gli stessi errori del passato. Noi possiamo imparare, noi possiamo scegliere”.
Apprendimento e scelta due pratiche intellettive ed emozionali che se anche hanno il valore temporale e caduco dell’azione simbolica, possono accedere raggi di diversità politica, di un indirizzamento verso una rotta altra.
L’attesa delle scuse americane, così ben narrata dal giornalista ed esperto del Sol Levante, Pio D’Emilia, forse perde di vigore rispetto alla portata storica del gesto di Obama e, pertanto, del governo americano. D’Emilia evidenzia come nella cultura nipponica il concetto di scusa ha una valenza ed un carico “salvifico” nettamente diverso dalla cultura giudaica-cristiano. Per la cultura giapponese non si deve chiedere scusa per gli antenati per le persone che non ci sono più perché la morte purifica, così come la nascita.
Inoltre, da un punto di vista politico-storico se Obama si dovesse scusare, i giapponesi si dovrebbero scusare per Pearl Harbor e, per l’aggressività bellica nei confronti della Cina e Corea, ferite ancora aperte nelle suddette società orientali. Dato che oltre il 70% degli americani pensano che l’attacco atomico sia stata una scelta giusta, il gesto di Obama è altamente significativo, a prescindere dall’”esposizione delle scuse”.
Gli hibakushya, i sopravvissuti al lancio efferato delle bombe atomiche, come ci racconta D’Emilia, avrebbero preferito incontrare Obama da soli, in religioso (in senso lato) silenzio senza la presenza di Abe, il presidente giapponese. Un gesto intimo che gli avrebbe permesso un raccoglimento profondo e unico, un’autentica ri-conciliazione.