Amazzonia, Australia e Indonesia. Le facce del negazionismo climatico
Tocca quasi i 9mila km quadrati la deforestazione compiuta in Amazzonia in meno di un anno, un’area grande quanto la superficie del Portorico precisa l’Inpe (l’Istituto nazionale per le ricerche spaziali brasiliano), per dare un’idea concreta della perdita. L’83% in più rispetto allo stesso periodo (gennaio-novembre) del 2018. E se solitamente nei mesi di novembre e dicembre, per via delle piogge, la perdita forestale rallenta, così non è stato nell’anno appena trascorso, posto che nel novembre 2019 l’Istituto ha rilevato dati inconsueti per la stagione.
I dati registrati dall’Inpe poggiano sul sistema satellitare di allerta Deter che già nell’agosto 2019, per via degli incendi, denunciava una statistica preoccupante che presagiva – al netto di un cambiamento di tendenza – il livello inusitato di disboscamento effettivamente raggiunto a novembre.
Ambientalisti, scienziati e ricercatori sono concordi nel sostenere che la colpa della deforestazione senza sosta dell’Amazzonia è da imputare alle politiche di Jair Bolsonaro – presidente del Brasile da gennaio 2019 – che favoriscono le attività minerarie e agroalimentari anche nelle aree protette e nelle riserve indigene.
Australia
Come Bolsonaro, anche il primo ministro dell’Australia, Scott Morrison, è un negazionista della questione ambientale e privilegia un’economia basata sullo sfruttamento dei combustibili fossili. Testardamente, mantiene le sue posizioni, senza ammettere la crisi climatica che da settembre 2019 sta colpendo l’Australia con siccità e incendi eccezionali.
Ventiquattro le persone morte, centinaia di migliaia i cittadini costretti ad abbandonare le loro case: si parla di ettari ed ettari di foreste in fumo dove hanno trovato la morte quasi 500 milioni di animali – compresa la perdita del 30% dei koala, l’animale simbolo del continente – secondo i calcoli del professor Chris Dickman, esperto di biodiversità dell’Università di Sydney.
Le regioni più colpite dai roghi boschivi sono New South Wales, Queensland, Victoria e il SouthAustralia. La vastità dei roghi (50mila ettari, come il Piemonte e la Lombardia messe insieme) ha provocato un aumento di 250 milioni di tonnellate di emissioni nocive di gas serra.
L’Australia è uno delle parti della Terra che maggiormente risente dei cambiamenti climatici, dalla siccità allo sbiancamento della barriera corallina. Eppure il conservatore Scott Morrison ha vinto le elezioni nella primavera del 2019, battendo i laburisti che avevano proposto l’obiettivo di riduzione delle emissioni del 45% entro il 2030. Il programma di Morrison ha previsto, invece, l’apertura di nuove miniere di carbone (l’Australia è la prima esportatrice al mondo di carbone) ed è stato uno dei “guastatori” degli accordi per mitigare le conseguenze della crisi climatica all’ultimo vertice sul clima dell’Onu, COP25.
Indonesia
E mentre Sydney (capitale dell’Australia) è avvolta dal fumo dei roghi boschivi e il suo cielo cambia colore per le ceneri, Giacarta, la capitale dell’Indonesia, è sommersa dall’acqua. Un’alluvione, causata dall’esondazione di 2 fiumi gonfiati dalla copiosità della pioggia caduta a fine dicembre 2019, ha sommerso molte zone della città, provocando 53 morti e circa 400mila sfollati. Pur essendo la stagione dei monsoni, le autorità indonesiane hanno parlato di “piogge di violenza straordinaria mai registrate finora”.
Giacarta, con una popolazione di 10 milioni di persone (ma che arrivano a 30 se si contano i centri urbani che la circondano), è una delle città più inquinate al mondo e sta letteralmente affondando a causa dell’eccessivo sfruttamento delle sue falde acquifere: estrazioni che l’hanno resa talmente fragile da risultare ad alto rischio e il presidente, Joko Widodo, progetta di sostituirla, con la costruzione di una nuova capitale.