Climatonauti. Testare i climi più estremi per prepararsi al futuro
L’esploratore e ricercatore francese Christian Clot, dal 2016 conduce l’esperimento Deep Climate, per valutare le reazioni psico- fisiche umane ai climi più estremi freddi, caldi, umidi e mutevoli.
Da dicembre 2022 a giugno 2023, tre gruppi di volontari dai 25 ai 52 anni, hanno vissuto nella foresta equatoriale della Guyana, nella Lapponia settentrionale e nel deserto dell’Arabia Saudita. Tre destinazioni che corrispondono, secondo Clot, alle tipologie di climi estremi, oggi delimitati in quelle aree semi-desertiche, ma che nei prossimi anni si estenderanno in gran parte della Terra, coinvolgendo sempre più persone.
Ecco chiaro, allora, l’obiettivo delle spedizioni, verificare in situ l’impatto dei cambiamenti climatici sull’essere umano.
Un’esperienza collettiva di adattamento che ha fornito dati e informazioni che ora saranno studiati e analizzati dai ricercatori e accademici di circa 15 laboratori, partener del programma scientifico, per giungere a risultati. auspicabilmente in grado di fornire soluzioni di adattamento, alla fine del 2024.
Il nostro futuro è una sfida, dice Clot (e come dargli torto!), considerando che le nostre condizioni di vita che saranno sempre più “trasformate dai cambiamenti climatici e ambientali” e, quindi, “dalla geopolitica globale” e dalle derivanti realtà sociali.
Giacché qualunque sia la nostra capacità di ridurre le emissioni di gas serra e inquinamento Clot, non ha dubbi, abbiamo già 3 certezze: vivremo in climi caldi, umidi e mutevoli e l’incertezza diverrà una costante”. E i rischi per gli essere viventi e per la salute umana, sia fisica sia psichica “saranno notevoli”.
Da cui, prosegue Clot, la necessità di comprendere l’adattabilità umana” e verificarne la “resilienza climatica “può fornire soluzioni per ridurre i rischi e migliorare il sostegno alle popolazioni – o alle parti di esse – vulnerabili”.
Al tempo stesso Clot confida che i risultati del programma scientifico siano un ulteriore sprone per l’adozione di misure di mitigazione del cambiamento climatico, impedendo scenari peggiori.
I climatonauti
I volontari delle spedizioni sono stati selezionati tra i 1500 circa, che hanno risposto all’annuncio dell’esploratore lanciato sui social network a fine 2018.
La prima selezione è stata facile: sono state eliminati tutti coloro che non rispondevano ai criteri dei protocolli MRI: via quindi le persone non destrorse e con tatuaggi nella parte superiore del corpo.
I rimanenti sono stati sottoposti ai test sviluppati dall’Agenzia spaziale europea e ai quelli specifici dell’Human Adaptation Institute, centro di ricerca fondato da Christian Clot.
Le spedizioni sono state organizzate, intraprese e portate a termine nonostante le notevoli difficoltà che andavano via via sovrapponendosi: dalla pandemia, alla guerra tra l’Ungheria e la Russia.
Al termine, i partecipanti, ben denominati i climatoanuti – complessivamente 20, suddivisi in 10 uomini, incluso Clot, e 10 donne, eterogenei per livello di studi e attività, costantemente monitorati e puntualmente visitati durante i soggiorni -, hanno dimostrato una forza di carattere e fisica fuori dal comune, grande coraggio e spirito di solidarietà: fattori che gli hanno permesso di portare a termine i viaggi come da programma, sia si trovassero nel soffocante caldo del deserto arabo, così come nelle gelide distese della Lapponia o nella giungla amazzonica.
Il soggiorno più difficile: quello nel deserto
Tra i soggiorni il più facile per l’adattamento è risultato quello trascorso in Guyana; il più duro quello nel deserto: l’alta temperatura che determina colpi di calore e disidratazioni, ha spiegato Clot, sono fattori che mettono repentinamente una persona in condizione di serio pericolo; portano alla stanchezza cronica, a uno smodato fabbisogno d’acqua quotidiano di 8 libri a persona. La sopportazione al caldo è soggettiva: le razioni sono state varie come lo erano le personalità.
Tornati in Francia, dopo aver trascorso 2 giorni sotto osservazione, i climatonauti sono tornati senza indugi alla loro vita di sempre.
Cooperazione, resilienza ed empatia. Che siano insegnate nelle scuole primarie
I risultati definitivi del programma scientifico si avranno, come già detto, a fine dell’anno prossimo.
Ma Clot, dopo questa esperienza, avanza la seguente ipotesi: “Soltanto il 10% della popolazione mondiale è ‘attrezzato’ per affrontare l’ignoto”, vale a dire riuscirebbe ad adattarsi ai bruschi cambiamenti.
Quindi sarebbero necessari da subito “grandi programmi educativi per preparare le popolazioni a questa nuova era. “La cooperazione, la resilienza, l’empatia devono essere insegnate fin dalla tenera età, come in Finlandia”.
Il budget
Un budget di 3 milioni di euro ha potuto consentire il lancio dell’esperimento; sebbene nel 2016, all’avvio del progetto, pochi finanziatori erano convinti della sua rilevanza, l’accelerazione del cambiamento climatico, con la scoperta dello stress ambientale, hanno fatto cambiare idea a molti sull’importanza del programma e Deep Climate è partito.
Immagini tratte dalla pagina Facebook di Human Adaptation Institute . Dall’alto verso il basso: 1) collage dei volontari nelle località dei 3 soggiorni e le caratteristiche climatiche in sovraimpressione; 2) foto di gruppo dei volontari – climatonauti nel deserto arabo; 2) l’esploratore a capo del programma scientifico Deep Climate, Christian Clot, al centro, fra 2 partecipanti