Afghani. Prigionieri a casa loro

Anwari, una delle poche persone tratte in salvo nei corridoi umanitari dall’Afghanistan, oggi preso in carico, assieme alla sua famiglia dalle volontarie e volontari di Baobab Experience ha accettato di raccontare la sua storia, offrendoci una testimonianza diretta di come si vive in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani.

“È tarda sera quando una voce sconosciuta comunica a nostro padre il luogo dove recuperare il corpo senza vita di mia sorella Laleh.

Quando arriviamo sul posto indicato, c’è una ragazza che giace per strada, uccisa da colpi d’arma da fuoco, ma non è Laleh”.
Laleh era appena uscita dal lavoro, quando improvvisamente si accorge di aver dimenticato in ufficio dei documenti che avrebbe voluto portare con sé. Sta riscendendo di corsa le scale, mentre alcuni spari colpiscono la schiena di una giovane donna che si trovava casualmente a passare davanti alla sede della Organizzazione.

Laleh, dalla vetrata, assiste all’esecuzione.

“È stato uno scambio di persona –ci dice Anwari– perché quei colpi erano destinati a lei. I sicari talebani la pedinavano da giorni: conoscevano orari, abitudini, spostamenti. La sua morte avrebbe dovuto essere la punizione per tutto ciò che Laleh rappresenta ai loro occhi”.

Laleh era ed è una attivista per la parità di genere e i diritti delle donne afgane. Collaborava con diverse realtà internazionali impegnate nella promozione e tutela dei diritti civili e umani. A Kabul era un volto conosciuto.

Una volta diventata bersaglio dei gruppi talebani, la sua esistenza e quella di tutta la famiglia è stata una escalation di minacce e ultimatum: “Inorridivano dell’attivismo di mia sorella, ma comunque desideravano reclutarla per ottenere informazioni sensibili sulle organizzazioni governative e non governative dove operava e sull’identità di colleghi afgani e stranieri. Sostanzialmente volevano che diventasse una infiltrata, una loro spia”.

Il tentativo di omicidio è stato solo la punta dell’iceberg. Il padre di Laleh riceveva già da tempo, nella sua sartoria, visite indesiderate, telefonate anonime, lettere minatorie.

A nulla sono servite le denunce alle autorità – compresa quella della morte di una ragazza che ha avuto solo la sfortuna di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato – se non ad esacerbare la situazione fino al suo limite estremo.

“Non avremmo mai voluto lasciare l’Afghanistan e il popolo afgano, ma dopo quel giorno di più di un anno fa, ogni scelta è diventata obbligata. Prima di riuscire a fuggire siamo stati clandestini nella nostra terra, costretti a nasconderci e a far perdere le tracce. Se ci avessero trovati, questa volta non avrebbero commesso errori” […]

“La prima a lasciare l’Afghanistan è stata Laleh. Ha vinto una borsa di studio in Italia, all’Università di […]. Poco dopo la sua partenza, siamo dovuti fuggire anche noi, alla volta dell’Iran”.

Anche dopo la partenza di Laleh, Anwari e la sua famiglia non vengono lasciati in pace: il padre aveva visto e denunciato alla polizia l’omicidio della ragazza, uccisa per errore al posto di sua figlia, e aveva indicato i mandanti.

“Siamo rimasti un anno in Iran. Abbiamo provato in tutti i modi a oltrepassare il confine con la Turchia, ma non ci siamo riusciti. Ho visto troppe persone morire alla frontiera. Quando ci siamo ammalati di Covid, non poter accedere all’assistenza sanitaria ci ha costretti a tornare in Afghanistan”.

Anwari, sua madre, suo padre e i suoi quattro fratelli tornano in Afghanistan. Ma nessuno lo sa. Si nascondono. Essere nella lista dei talebani è di fatto una condanna a morte, ma ottenere il visto per la Turchia si rivela da subito una strada sbarrata.

Quando l’Italia inizia il processo di evacuazione, Laleh si mette subito in contatto con i suoi vecchi colleghi, riportando la condizione drammatica della sua famiglia e chiedendo di inserire i nomi dei suoi genitori, della sorella e dei fratelli nella lista del Ministero degli Esteri.

“Quando ci hanno telefonato per il corridoio umanitario, siamo corsi verso l’aeroporto, ma non è stato possibile neppure avvicinarsi: c’era una folla impaurita, sconvolta, in preda al panico.

Siamo stati picchiati sia dalla sicurezza afgana sia dai miliziani talebani. Ci hanno sparato e lanciato gas lacrimogeni addosso. Chi cadeva a terra, come noi, veniva calpestato dalle persone in fuga dai proiettili. Abbiamo perso tutto: documenti, soldi, le valigie con i vestiti”.

Anwari e la sua famiglia tornano nel rifugio, si mettono in contatto con l’ambasciata italiana e aspettano.

Quando, giorni dopo, vengono ricontattati, restano fuori dall’aeroporto due giorni e due notti prima di riuscire ad entrare.

“Noi siamo in salvo in Italia ma mia zia è ancora in Afghanistan. Suo marito è stato ucciso dai talebani. Ha due figlie piccole e non ha possibilità di mantenerle: lavorava al Comune, ma con la conquista di Kabul, i talebani l’hanno costretta ad abbandonare il suo impiego, così come hanno costretto le due bambine a lasciare la scuola.

Di mio zio invece non abbiamo più notizie. Quando siamo arrivati in Italia, lui si trovava ancora nel Panjshir. Non sappiamo se sia vivo o morto. Non sappiamo nulla… Ora che i talebani cercano porta a porta tutte le persone originarie dell’ultima provincia ribelle, dell’ultimo anelito di resistenza.

Chiediamo al Governo italiano di non interrompere le evacuazioni. Sono migliaia le persone in pericolo di vita. Sono migliaia le persone prigioniere in casa loro”.

 

Immagine: Kabul (Afghanistan) 3 febbraio 2002: photo by Paula Bronstein

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