Il sapore agro del lavoro

“Che mondo è questo, in cui due ragazzi arrivano a scontrarsi fino a perdere la vita, per 4 euro?”. Il lavoro in oggetto è quello dei rider; si tratta di una frase estrapolata dalla sceneggiatura di una nota fiction italiana, situazione estremizzata dalla drammatizzazione della finzione, ma la sostanza rimane: “In quale mondo viviamo? Quale è lo stato dell’arte delle condizioni lavorative?

È trascorso appena un giorno dalla ricorrenza del 1° maggio, festa del lavoro. I morti sul posto del lavoro, la precarietà, il grido ai diritti inviolabili dell’uomo, le proposte legislative sulla settimana breve, l’opportunità o meno della settimana breve, così come la giustezza del reddito di cittadinanza, il salario minimo. Una litania che invoca un cambiamento che rischia di trasformarsi in immobilismo del cambiamento.

I morti sul lavoro rappresentano la piaga primaria del nostro sistema lavorativo; un drammatico ossimoro, una vergogna civica e sociale. Ma quali sono le azioni da porre in essere per ridurre questa catastrofe innaturale? Quali le pene messe in atto non come azione vendicatoria ma come azione obbligatoria di un processo civile e penale che possa assicurare la vita e la vivibilità agli esseri umani, impegnati nel loro contributo sociale e personale.

Non assimilabile o paragonabile alle perdite di vite umane, emerge, pur se sommerso, la totale incuria nella gestione delle risorse umane, laddove ce ne sarebbe maggiormente bisogno, laddove le tutele sono garantite dalle norme di “sicurezza sul lavoro”.

L’assenza di lavoro, a volte, è nascosta da un bacino salto e denso. Acque di un simbolico Mar Morto che celano in profondità una massa informe di lavoratori che si dimenano per risalire a galla, per trovare un loro posto, anche discapito dei propri colleghi e colleghe.

Società (non entriamo nel merito della natura, statale o privata), che danno in appalto pezzi di azienda, a loro volta date in subappalto in un vortice di aziende dai nomi quasi simili, fumosi, a volte impronunciabili. Sigle, acronimi che promettono contratti non a lungo termine ma a lunga gittata: vale a dire, vengono effettuati dopo periodi di prova senza protezioni e, una volta raggiunto l’anelato contratto, risulta essere a tempo determinato.

In alcuni casi sembra quasi che ci si aspetti dal lavoratore l’accettazione di una bassa remunerazione, poiché solo il fatto di lavorare è già una forma di gratificazione. E questo è solo uno degli aspetti più mortificanti, così lontani da quella “dignità sociale” di cui parla la nostra Costituzione.

La legge pone un limite al rinnovo di contratti a tempo determinato, ma se un lavoratore lavora in uno stesso posto e l’anno successivo riceve 3 diversi Cud,  qualche anomalia, evidentemente sussiste. E l’aspetto più cupo e malsano, oltre alla mancanza di un progetto lavorativo (e quindi anche di vita) è il clima di tensione e di diffidenza tra pari.

“Dividi et impera” di cesariana memoria, così amato da una certa tipologia di management è l’antitesi della cooperazione su cui si basano le più accreditate filosofie di organizzazione aziendale a cui corrispondono successi aziendali, intesi come felice commistione tra benessere personale, professionale e reddittività aziendale.

Se poi, alla precarietà in-flessibilità lavorativa si aggiunge il ricatto salariale basato sul raggiungimento o meno di obiettivi quantitativi, il lavoro si converte in una sorta di coercizione esistenziale.

Il lavoro nobilita l’uomo, se ne è assicurata la dignità e il rispetto, altrimenti lo degrada fino a sciogliere ogni suo elemento, ogni suo componente.

Il lavoro nero rimane un autentico buco nero sia per le persone che per la società. Abbiamo visto come nella pandemia chi lavorava in nero si è ritrovato inesistente per lo Stato e pertanto anche per lo sviluppo del Paese. Perché se io non progredisco, la collettività non progredisce.

L’immediatezza del bisogno da parte della persona in cerca di occupazione e la miopia professionale e la ristrettezza di orizzonti umani di chi offre tali condizioni, consolida comportamenti inquinanti e privi di prospettiva, in senso lato.  Il sommerso lavorativo è un danno sia per  i lavoratori/non lavorativi che per l’azienda stessa, e per l’intera collettività.

Tuttavia una soluzione c’è: la possibilità di invertire la marcia, in un’ottica di progresso individuale e sociale, perché se tanti individui stanno bene, la collettività sta bene. La sostenibilità ecologica non si articola solo attraverso il consumo sostenibile, le politiche energetiche sostenibili, ma anche (e forse soprattutto) tramite comportamenti etici tra individui, tra individuo e società.

Anche in condizioni di sicurezza lavorativa, sta emergendo la necessità di gestire l’iperconnettività, attraverso misure normative quale il diritto alla disconnessione, al diritto della prioritizzazione delle attività da svolgere, per armonizzare la conciliazione vita-lavoro in senso lato.

Forse è superfluo, ricordare che l‘art.2 della Costituzione italiana riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

L’inviolabilità dei diritti dell’uomo, secondo un’interpretazione accolta dalla Corte Costituzionale, riguarda non solo del cittadino, ma all’uomo in quanto tale, e pertanto il ri-conoscimento di tali diritti a ogni persona che fa parte di una comunità.

Solidarietà politica, economica e sociale che ci chiama tutti in causa, e in particolare, nella sfera lavorativa coinvolge istituzioni, datori di lavoro e lavoratori.

 

Immagine: dipinto di Plinio Nomellini – La diana del lavoro, 1893

 

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