Quando lo smartphone è maleducato
Siamo iperconnessi. Sempre. Talvolta, possiamo diventare anche degli iperconnessi maleducati, magari, senza nemmeno rendercene conto. Il nostro smartphone è un mondo in tasca. I sociologi lo studiano da tempo, questo sfasamento del “Qui ed ora”, più che altro da un punto di vista di effetti sulle nostre relazioni umane.
Adesso, c’è chi invece si interroga anche e soprattutto su quale possa essere la “buona educazione” da tenere usando queste meraviglie socio-tecnologiche. Il che rende questo discorso tremendamente difficile: l’educazione, per definizione, consiste in una serie di regole che in qualche modo ci aiutano a saperci comportare bene, ovvero, in modo da non urtare la sensibilità degli altri e, quindi, di avere con loro un rapporto “senza inconvenienti“. Il comportamento maleducato, in effetti, è un intralcio, un problema, un fastidio nell’avere a che fare con gli altri. Ma tutto questo rischia di sembrare “vecchio” ed “arcaico” nel mondo ipercollegato di oggi, soprattutto se parliamo di “educazione” proprio nell’utilizzo dello smartphone.
Togliamoci un secondo dall’inghippo, parlando di un tema in particolare: l’utilizzo dei cosiddetti comandi vocali, ovvero di quelle funzioni che permettono di usare i nostri dispositivi impartendogli degli ordini, dettandogli conversazioni, o semplicemente dicendogli qualcosa. Ebbene: abituarsi ad usare questo tipo di funzione può farci incappare in situazioni davvero sconvenienti. Come, ad esempio, impartire un ordine tipo: “Segnami appuntamento con la direttrice” parlando ad alta voce e guardando, magari, il nostro compagno di viaggio in uno scompartimento del treno. Che può – poverino – non capire subito che stiamo parlando con il nostro smartphone, e non con lui.
«Credo davvero che attivare il controllo vocale sia inappropriato, in certi posti: per strada, in metropolitana, in ascensore, in auto, quando si è in fila per ordinare un panino o un caffè. Non lo userei in questi posti», ha scritto Lizzie Post, bis-bisnipote di Emily Post (scrittrice americana esperta di galateo), autrice di libri e podcast sul galateo nell’età moderna per il Post Institute. In effetti, può non aver torto. Perché l’abitudine ad usare il nostro dispositivo, magari in situazioni familiari, tranquille, può portarci a farlo anche in luoghi sociali nei quali la decodifica di quello che stiamo facendo può non essere così immediata, creando fraintendimenti, guasti, incomprensioni.
E stiamo parlando un po’ di un caso (per adesso, perché l’industria degli smartphone vuole farceli usare sempre più spesso i comandi vocali) limite, ovvero, quello nel quale ci troviamo a conversare con il nostro cellulare.
Ma il discorso della nuova educazione che ci è richiesta nell’usare lo smartphone può essere davvero allargato. Dobbiamo forse renderci conto che la nostra attenzione sta sempre più diventando un bene prezioso, in bilico come siamo tra più mondi dei quali quello “reale” è solo uno, spesso nemmeno quello a cui riserviamo maggiore interesse.
Quindi, dobbiamo fare attenzione: non sempre chi ci sta intorno è per forza interessato alle nostre conversazioni, ai nostri aggiornamenti di stato, alle nostre notifiche. Oppure, potrebbe sentirsi in qualche modo offeso della nostra caduta di attenzione nei suoi confronti. Quindi, anche se dobbiamo (o vogliamo) rimanere iperconnessi, godendoci la meraviglia sociale che la tecnica ci sta portando in dote, è bene sempre farlo con quel grado di attenzione che ci permetta, ad esempio, magari di spiegare per sommi capi al nostro collega o compagno di viaggio quel che stiamo facendo; oppure, quello di non tenere lo smartphone sul tavolo al ristorante; o anche, evitare di scorrere foto e status mentre si è con persone che, magari, preferirebbero avere una conversazione.
Perché essere iperconnessi è bellissimo. Ma occorre davvero saperlo fare…