Felicità. Non è solo questione di Pil
Italia cinquantesima, Danimarca prima. In mezzo, cinquanta sfumature diverse (in ordine decrescente) di un parametro che frotte avanguardiste di economisti e i sociologi stanno già da tempo mettendo al primo posto nelle loro osservazioni, e che i politici farebbero bene a prendere maggiormente in considerazione: la felicità.
Quella classifica che ci mette così tanto indietro è stata stilata dal Sustainable Development Solutions Network, un’agenzia dell’ONU che quest’anno ne ha pubblicato la quarta edizione relativa agli anni 2013-2015, e si basa su un parametro per certi versi rivoluzionario: la felicità, appunto, ovvero il benessere percepito, o ancor meglio la soddisfazione che si prova nei confronti della propria esistenza, della propria vita, della propria capacità di sentirsi bene.
Un parametro che sta diventando sempre più importante per chi di mestiere studia e lavora con i numeri per rappresentare la realtà sociale di un Paese, di un Continente o del Mondo intero, in modo da dare strumenti ai governanti per far bene il loro lavoro, e ai governati – magari – per giudicarne l’operato. Un parametro che va molto oltre, pur considerandolo, rispetto al PIL, ovvero al Prodotto Interno Lordo, numero al quale è stato demandato questo compito descrittivo per tanti lunghi anni, ma che oramai, dopo quasi un decennio di crisi economica lancinante (ma anche prima) è messo in fortissima discussione. La diffusa attenzione verso il Rapporto testimonia infatti il crescente interesse a livello globale ad utilizzare la felicità ed il benessere soggettivo come indicatori primari della qualità dello sviluppo umano.
«La misurazione della felicità percepita e il raggiungimento del benessere dovrebbero essere attività all’ordine del giorno di ogni nazione che si propone di perseguire obiettivi di sviluppo sostenibile” – ha affermato Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute presso la Columbia University. “Infatti gli obiettivi stessi comprendono l’idea che il benessere umano dovrebbe essere promosso attraverso un approccio olistico che combina obiettivi economici, sociali e ambientali. Al posto di adottare un approccio incentrato esclusivamente sulla crescita economica, dovremmo promuovere società prospere, giuste e sostenibili dal punto di vista ambientale».
E questo solo per riportare una voce (che, come si vede, propone un nuovo baricentro, quello ambientale). Perché ce ne sono molte altre. Ma il tratto comune è sempre quello: mettere tutti i parametri in relazione tra loro, e osservarne l’effetto multiplo e vettoriale sulla percezione di benessere dei componenti della società. Perché quale che sia il parametro prescelto, è oramai un dato di fatto che molti governi, comunità ed organizzazioni stiano usando i dati sulla felicità ed i risultati delle ricerche sul benessere soggettivo, al fine di promuovere politiche che supportino il miglioramento della qualità della vita.
Quest’anno, per la prima volta, il Rapporto sulla Felicità affida poi un ruolo speciale alla misurazione e alle conseguenze della disuguaglianza nella distribuzione del benessere tra i Paesi. Nelle precedenti edizioni gli autori avevano sostenuto che la felicità fornisse un migliore indicatore del benessere umano rispetto a reddito, povertà, educazione, salute e buon governo, misurati separatamente. Ora emerge che la disuguaglianza nella felicità fornisce una misura più ampia della disuguaglianza in senso stretto. Risulta, insomma, che le persone siano più felici vivendo in società in cui c’è meno disuguaglianza di felicità.
Piccola nota a margine, che torna a guardare nel cortiletto di casa nostra. Un cortiletto interessante, visto che questa quarta edizione del rapporto è stata presentata proprio da noi, in Italia, a Roma. Fatto non di poco conto: «È molto importante che quest’anno il Rapporto mondiale della felicità venga presentato in Italia – ha infatti dichiarato Luigino Bruni, docente LUMSA –. L’Italia è stata la patria della felicità, perché mentre in Inghilterra l’economia nel ‘700 nasceva come “scienza della ricchezza”, in Italia a Napoli e in tutta la penisola la nuova scienza economica prendeva il nome di “scienza della pubblica felicità“. Oggi l’Italia e l’Europa hanno un enorme bisogno di bene comune perché l’aumento delle diseguaglianze ci sta dicendo ormai da tempo che il bene dei singoli cittadini più ricchi può crescere a scapito dei più poveri. “Non si può essere felici da soli”, perché la felicità è una forma alta di bene comune».