Revocato il premio di Ambasciatrice della coscienza ad Aung San Suu Kyi

L’organizzazione umanitaria Amnesty International ha revocato ad Aung San Suu Kyi, leader de facto del Myanmar (ex Birmania), il premio Ambasciatrice della coscienza, che le aveva conferito nel 2009, per il “tradimento per quei valori” che la stessa Aung San Suu Kyi “un tempo si era battuta”.

La decisione è stata comunicata dal segretario generale di Amnesty International, Kumi Naidoo, con una nota rivolta alla stessa Suu Kyi che recita: “Come ‘Ambasciatrice della coscienza’, ci aspettavamo da Lei che continuasse a usare la sua autorità morale per prendere posizione contro le ingiustizie ovunque le scorgesse, a iniziare dal Suo paese. Oggi, proviamo profondo sconcerto per il fatto che Lei non rappresenti più un simbolo di coraggio, di speranza e d’imperitura difesa dei diritti umani. Amnesty International non può più valutare il Suo comportamento come coerente al riconoscimento assegnatole ed è pertanto con grande tristezza che ci accingiamo a revocarlo”.

Le accuse mosse nei confronti di Aung San Suu Kiy, da parte di tutta la comunità internazionale, riguardano il fatto di non aver usato il potere che le conferisce il suo incarico per impedire alle forze militari del suo Paese di procedere con inaudite violenze, deportazioni, espulsioni e distruzione dei villaggi della minoranza islamica Rohingya, nello Stato di Rakhine nell’ovest del Myanmar, dove la minoranza risiedeva.

Nel marzo 2018, dopo un costante monitoraggio attraverso le analisi delle immagini satellitari e testimonianze oculari, Amnesty International ha  accusato le autorità birmane di “pulizia etnica”. Aung San Suu Kyi ha sempre considerato false le accuse mosse ai militari, definendo i Rohingya “terroristi” e accusandoli di aver bruciato loro stessi le proprie case.

La revoca del massimo riconoscimento di Amnesty International è solo l’ultima di una serie di ritiri di onorificenze avvenute di fronte all’inerzia di  Suu Kyi nei confronti della crisi dei Rohingya in Birmania. Dal 2017  si era parlato anche di un possibile ritiro del Nobel per la pace che le era stato assegnato nel 1991 nel corso della lunga prigionia che  Suu Kyi ha subito fino a otto anni fa perché a capo del partito avverso al regime allora in carica e che oggi, da libera e da leader de facto, difende.  Ma il presidente del Comitato per il Nobel norvegese, Olav Njolstad, ha dichiarato che nello statuto del comitato non esistono regole che prevedono il ritiro del premio una volta assegnato.

Amnesty International non tralascia, infine, di menzionare il caso dei 2 giornalisti della Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, arrestati in Birmania nel settembre 2018 mentre indagavano su una delle stragi dei Rohingya e condannati a 7 anni di carcere ciascun accusati di spionaggio e di aver violato la legge sui segreti di Stato, dopo un processo ritenuto dalla comunità internazionale un attacco alla libertà di stampa.

Attualmente sono circa 720mila i Rohingya fuggiti dalla Birmania e rifuggiatesi nel vicino Bangladesh.

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