Documentare l’amore e la vita tra le lacerazioni della Siria

In Siria la guerra continua, anche se il conflitto scoppiato nel 2011 non occupa più le prime pagine dei giornali.  Ma il cinema irrompe nella nostra quotidianità, rimettendo al centro della nostra attenzione le storie che si consumano in quel tragico scenario con 2 titoli presto nelle sale ed entrambi candidati al Premio Oscar 2020, i documentari The Cave e Alla mia piccola Sama.

The Cave – che sarà trasmesso in televisione il 9 febbraio alle 20.55 dal canale National Geographic, poche ore prime dell’assegnazione degli Oscar – è un documentario sulle gesta eroiche di uno sfaff di medici e infermieri che fino al 2018, nel sotterraneo di un ospedale a Ghouta est (vicino a Damasco), hanno salvato migliaia di persone, soprattutto bambini.  Sotto la guida di Amani Ballour, giovane pediatra e prima donna direttore di un ospedale in Siria, l’équipe svolge il suo lavoro fino all’abnegazione, nonostante il luogo sacrificato e le medicine e il cibo sempre troppo scarsi. Pur trovandosi tutti in una situazione estrema, Amani è costretta a fare i conti con la resistenza di molti uomini che la criticano perché dovrebbe “stare in casa a prendersi cura del marito e dei figli” invece di fare il primario.

Se lo sente dire addirittura dal marito di una paziente, ma Amani non si scoraggia: “Ho sempre saputo di vivere e operare in una società razzista e autocratica – racconta nel film – dove per gli uomini la religione è uno strumento, ne prendono le parti che gli fanno comodo”. E continua il suo lavoro quasi non stop, supportando tante donne e madri rimaste sole e alle quali offre lavoro nell’ospedale. Lo staff le è accanto con altrettanta generosità. C’è il chirurgo Salim che opera sulle note della musica classica trasmesse con lo smartphone, convinto che “rasserenano i pazienti; c’è Alaa anch’essa pediatra e Samaher, la quale – nonostante le conseguenze di una ferita alla testa che le ha procurato una parziale amnesia – continua a lavorare e si preoccupa di preparare i pasti ai colleghi.

Così hanno lavorato Amani e il suo staff fino al 2018,  quando, dopo un attacco chimico rivelato dall’Onu, sono stati, come tutti in città, trasferiti.  Ghouta est è stato uno dei luoghi più martirizzati dalla guerra. Città fantasma in superficie, la popolazione cercava la salvezza dagli attacchi aerei rifugiandosi in spazi e tunnel sotterranei, così come nell’ospedale, edificio di 6 piani distrutto in superficie. Amani e la sua équipe lavoravano negli scantinati, unica parte rimasta operativa e  soprannominata  The cave, la grotta, il nome che il regista  Feras Fayyad ha poi dato al docu-film.

Note non a margine: Amani Ballour, che oggi vive in Turchia, ha ricevuto dal Consiglio d’Europa  il Premio Raoul Wallenberg  per il suo impegno. Al regista Feras Fayyad, esule siriano in Danimarca, già candidato agli Oscar 2017 con un documentario sulla guerra nel suo Paese, Last men in Aleppo, recentemente è stato vietato l’ingresso negli Usa, per il travel ban voluto dal presidente Donald Trump. Diventato un caso diplomatico, il visto gli è stato poi concesso pochi giorni fa.

È ambientato, invece, ad Aleppo Alla mia piccola Sama, altra città simbolo della guerra in Siria, sede dei ribelli al regime di Assad e dove le battaglie hanno infuriato incessantemente. Ma questo non ha fermato il futuro di Waad e Hamza, giovani innamorati dai tempi dell’università, che decidono di sposarsi e dopo 9 mesi nasce la loro bambina Sama, alla quale è dedicato il documentario.

Una lettera  d’amore e, come tale, un inno alla vita, nonostante l’orrore della guerra circostante che Waad, giornalista freelance, ha ripreso con una telecamera a mano nel 2015, negli ultimi giorni della battaglia in città e che poi a messo a punto a Londra, con la collaborazione del regista Edward Watts.

Nel documentario la giovane mamma spiega a Sama perché i suoi genitori hanno preferito rimanere in Siria nonostante il conflitto: Hamza fa il medico nell’ultimo ospedale della città, ogni giorno rischiano di morire (e Waad realizza il documentario anche per lasciare alla figlia un video messaggio nel caso non dovesse vederla crescere), ma non abbandonano il loro sogno di ibertà contro ogni forma di tirannia. Si ribellano, ma sono consapevoli di essere costretti all’esilio e, durante l’esodo, dovranno fronteggiare ancora una volta la morte.

Nelle sale dal 13 febbraio 2020, Alla mia piccola Sama si è già aggiudicato i Premi di Amnesty International per i Diritti Umani,  per il miglior film nel Concorso ufficiale Amore e Psiche e delle Giurie Universitarie dei Circoli di lettera delle Biblioteche; mentre  il prossimo 9 febbraio, potrebbe essere benedetto anche dall’Oscar.

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