Da Palo Alto ad Aversa. Qualcuno volò sul nido del cuculo
A poca distanza dalla messa in scena della Pazza della porta accanto, Alessandro Gassmann ricostruisce le mura del manicomio al teatro Eliseo, di Roma, firmando la regia di Qualcuno volò sul nido del cuculo; opera tratta dal romanzo di Ken Kesey del 1962, rappresentato per la prima volta a Broadway grazie alla riscrittura di Dale Wasserman e seguito dal premiatissimo film di Miloš Forman del 1975 che vede protagonista un giovane Jack Nicholson.
Dunque, la trama è ben conosciuta mentre l’intero impianto scenico potrebbe essere assimilabile all’altra pièce che ha visto protagonista l’attrice Anna Foglietta. Insomma tutto troppo auspicabile. Ri-cimentarsi nella medesima tematica per rendere tangibile la follia. Da pazzi.
Eppure, lo spettatore, ancora intento a trovare la poltrona assegnata, viene subito accolto dalla potenza di una scritta posta ai piedi del palcoscenico: ospedale psichiatrico, due parole fredde come la pietra che vogliono rappresentare. È il preludio del dramma, del grigiore atavico dei manicomi a cui sembrerebbe ormai abituata la platea, fedele al cartellone del teatro romano. L’attesa è un misto di curiosità e aspettative, poi la voce da lontano annuncia che lo spettacolo sta per cominciare e che avrà una durata di circa 2 ore e 40 minuti. Forse troppo per una rappresentazione teatrale da fruire di sera, dopo una lunga giornata di lavoro consumata al gelo. L’inevitabile voglia di scandire il tempo. Una follia.
Figli di un Dio minore in cerca di identità
Siamo all’interno ospedale psichiatrico di Aversa, corre l’anno 1982. La scena si apre sui grandi finestroni posti ai lati del palco, davanti l’immancabile statua della Madonna; la postazione dell’infermiera sul fondo, tavoli e sedie per la ricreazione, speculare alla noia d’ospedale. Il protagonista è Dario Danise, interpretato da un ottimo e versatile Daniele Russo, un delinquentello dal forte accento napoletano, cresciuto fra le scaltrezze di strada, che ne hanno segnato il destino.
Figlio di un Dio minore fatto di stratagemmi e sotterfugi, Dario si improvvisa pazzo per sfuggire al carcere. Tuttavia, scoprirà presto ben altre sbarre. L’amara coercizione di un sistema ospedaliero inabile, assetato solo di regole e ordine. Palliativi inutili che non cancellano l’odore acre dei medicinali, profusi chissà senza logica, o il rumore scaltro della paura di esistere che tras-forma e si trasforma in un consapevole rifiuto del mondo.
Il signor Danise, irrompe e corrompe con la sua gestualità irriverente, con il suo cantico spezzato che catalizza la claustrofobia imperante. Insieme ai nuovi compagni, artefici ingenui di un male oscuro, scoprirà la follia di un mondo incapace di accogliere la diversità. Eccola l’italietta in-sonora di fine secolo, ingrata e irriverente, pronta sempre e comunque ad acclamare le vittorie da stadio. E Dario si batterà anche per vedere la finale contro la Germania. Suggestiva la videografia di Tardelli esultante che fende l’aria correndo. Il cuore italico freme. Da pazzi.
Colpisce la figura cupa del sudamericano, l’indimenticabile indiano nel film di Miloš Forman, in-valido e possente al tempo stesso. Lui immagina, ricorda la sua grande madre che traspare grazie all’effetto filmico, permettendo alla platea attenta di spaziare nei suoi angoli onirici. In seguito Ramón, impersonato da un possente Gilberto Gilozzi, senza retorica, dichiarerà che l’esilio dalle proprie radici rende muto il richiamo delle origini; estraniato dal suo paese non ode più la voce materna, non sogna più la genitrice, non vede più l’ombra del passato. Una sottile apologia del movimento dei popoli. Inevitabile la riflessione critica sulle antinomie dei tempi, su quella strana indifferenza che talvolta si imprime sui nostri animi, paradossalmente atti alla mobilità. Una follia.
L’infermiera come la migliore delle carceriere, preserva la noia: impronta terapie di gruppo, s’improvvisa dispensatrice di terapie, somministra farmaci. Fredda, cinica, maestosamente blindata nel suo sistema di certezze. Entrano i pazzi, ognuno rinchiuso nella sua personale fobia; danzano le anime artefatte dai tic, dalle insolenze del quotidiano, dalla paura e dall’incapacità di sceglier-si.
Si presentano: primo il presidente, nominato a furor di popola sull’eco di una falsa democrazia, trascina il mimo docile di un’omosessualità mai latente. Poi gli altri: c’è chi dipinge il nulla con colori immaginari, chi parla con un invisibile compagno, chi celebra parole a vanvera e chi, viceversa, è sopraffatto da una voce falsamente inadatta a dare forma ai pensieri. Tutti perfetti nelle proprie anomalie che, a ben guardare, restituiscono l’individualità negata.
Un crocevia di personaggi padroni indiscussi del proprio spazio scenico. Come spirali insensate, decentrano lo sguardo che non arretra, anzi si immerge via via nella totalità del meccanismo scenico, orchestrato in maniera organica e puntuale. Nessuna increspatura. Una crescita esponenziale di emozioni lascia all’impalcatura e alla bravura degli attori la forza di stupire. Il lungo plauso finale rende onore a questa altalena di riflessioni, un miscuglio amaro come la logica immortale dell’emarginazione. Da pazzi, davvero.
Regia immaginifica e trasudante di autentica sofferenza rimasta in-ascoltata, intensa e inappuntabile Elisabetta Valgoi nel ruolo di Suor Lucia. Costumi, luci, scenografia, in compunta armonia con lo spirito di una messa in scena locale e universale.