Riciclo marino. El purtava i scarp de tennis
L’isola di plastica o Pacific Trash Vortex. Lo chiamano così l’enorme accumulo di rifiuti galleggianti nel nord dell’Oceano Pacifico, tanto grande da non riuscire a misurarla. Le stime sono approssimative e variano da fonte a fonte.
Si parte da migliaia ai milioni di chilometri quadrati. Secondo i ricercatori del fenomeno l’accumulo è andato formandosi a partire dagli anni ’50, quadruplicatosi negli anni ’80 del Novecento. L’affastellamento dei rifiuti avviene in quella parte del Pacifico in cui si verifica il cosiddetto “Vortice subtropicale del Nord Pacifico” dove un particolare moto della corrente oceanica, a spirale e in senso orario, forma un vortice nel cui centro le acque si fanno più ferme e i rifiuti che si depositano si accumulano e si aggregano, occupando i primi strati della superficie marina.
L’isola è stata scoperta nel 1997 dall’oceanografo Charles Moore. Uno studio del 2004 del biologo marino Richard Thompson ha dimostrato che gran parte dei rifiuti marini è costituita dalla plastica.
Dal 2014 grazie ai 22 ricercatori del Centro di Analisi e Sintesi Ecologica (NCEAS) dell’University of California (UC) sappiamo che decine di migliaia di tonnellate di plastica galleggiano nella superficie di tutti gli oceani del mondo, che si radunano in corrispondenza dei 5 principali vortici subtropicali.
I ricercatori dell’UC hanno tracciato la mappa mondiale dei rifiuti galleggianti, dalla quale si deduce che più che parlare d’isola è più opportuno, orma, riferirsi ad un arcipelago della spazzatura.
Quali effetti provocherà tutta questa quantità di rifiuti sull’ecosistema ancora non sono chiari. Per molto tempo si è pensato erroneamente che la soluzione all’inquinamento fosse la diluzione, un processo alieno alla plastica, che, tuttavia, si frammenta in particelle talmente microscopiche da diventare irrecuperabili.
Si disperdono nelle profondità degli oceani – la parte meno esplorata del pianeta – e diventano cibo velenoso per la fauna marina. E lo studio e la ricerca dei rifiuti marini è relativamente giovane e complesso, perché richiede l’intervento di specialisti di più ambiti, dagli oceanografi ai tecnici della gestione dei rifiuti solidi.
Ma qualcosa si muove
Nel frattempo però la plastica marina diventa produttiva fonte di riciclaggio in vari campi industriali e imprenditoriale. I marchi piccoli e grandi collaborando con specialisti del settore recupero e riciclaggio della plastica, si danno da fare, praticando il cosiddetto upcycling, ovvero il riuso creativo.
È di questi giorni l’annuncio della multinazionale Procter & Gamble che insieme alla Terra CyCle, specializzata nel riciclo di rifiuti e alla francese Suez, hanno creato il primo flacone per shampoo composta dal 25% di plastica marina riciclata.
Ricalcando le orme dei marchi, sempre nord-americani, del settore dell’abbigliamento che dal 2014 impiegano la “plastica di mare” nella propria produzione.
La prima è stata la griffe Bionic Yarn che ha creato un jeans realizzato dal mix fra cotone e plastica marina riciclata.
L’anno scorso il designer britannico Alexander Taylor, in collaborazione con Adidas e Parley for the Oceans ha realizzato un modello di scarpa da ginnastica realizzate con filamenti derivati dalle plastiche riciclate dai rifiuti negli oceani.
La scarpa è stata realizzata attraverso il processo di produzione standard dell’Adidas, sostituendo i filati tradizionali con fibre ottenute dal riciclaggio dei rifiuti e dalle reti da pesca gettati nei mari.
Adidas dopo aver presentato il modello di Taylor “UltraBOOST Uncaged Parley” alla conferenza delle Nazioni Unite “Oceano. Clima. Vita”, l’ha immesso nel mercato il 7 giugno 2016 in occasione della giornata mondiale degli oceani. Da novembre 2016 le ha distribuite nei propri store, con un obiettivo di produzione di 1 milione di paia per il 2017.
La strada intrapresa dalle grandi aziende di produrre sulla base del riciclo è un fattore notevole di cambiamento di produzione, ma la sostenibilità industriale comprende ogni fase della filiera, tra cui condizioni ambientali e retributive, rispettose dell’uomo e del pianeta.
L’upcycling non è il il recycling
L’upcycling indica una pratica nettamente diversa dal recycling. Ma spesso i 2 due termini, erroneamente, si sovrappongono.
Upcycling è un termine coniato nel 1984 dal giornalista Reiner Pilz e lanciato alla grande informazione nella seconda metà degli anni novanta del Novecento, dal libro omonimo dell’economista belga Gunter Pauli.
Upcycling indica quella pratica che trasforma un rifiuto in un nuovo oggetto, per questo la traduzione nella locuzione “riuso creativo” e appropriata ed esaustiva. Indica un processo industriale che trasforma il rifiuto in nuove materie e materiale nuovamente lavorabile, che danno vita a prodotti utili, ad alto valore commerciale e che generano profitto. Di conseguenza il suo ciclo vitale è sempre aperto e, idealmente, dovrebbe portare nel futuro, all’eliminazione dei rifiuti.
Il vantaggio ambientale dell’upcycling è duplice. Giacché oltre allo smaltimento dei rifiuti comporta la diminuzione del reperimento e impiego delle materie prime con conseguente diminuzione dell’uso di energia, inquinamento atmosferico, idrico, emissioni di gas serra e costi di smaltimento.
Il recycling invece pratica il processo industriale di raccolta, classificazione e trasformazione dei rifiuti. Implica consumo di energie e di risorse naturali, costi di gestione e inquinamento atmosferico. È, pertanto, un processo a ciclo chiuso che implica il concetto di down-cycling, ossia di perdita di valore. Nel processo di riciclo, ad esempio, della plastica, che non sia quella usata per le bottiglie, da vita a una materia composto da vari rifiuti plastici, quindi ibrida, considerata un sottoprodotto. Un processo industriale di trasformazione del rifiuto ma non di riuso commercialmente valido.