Verso il 6 febbraio.Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili
Il 6 febbraio è la giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili (Mgf).
Il 20 dicembre 2012, con una risoluzione approvata all’unanimità, l’Onu ha dichiarato la messa al bando universale della pratica.
Da allora un evento di valenza storica si è verificato l’8 agosto 2016, quando il Parlamento dell’Unione Africana, composto da 54 stati del continente, ha avallato la proibizione delle mutilazioni genitali femminili. Vero è che il Parlamento Panafricano ha carattere consultivo e non legislativo, ma la sua decisione, oltre a rappresentare un’ufficiale presa d’atto contro l’odioso costume, dà grande speranza e stimolo a tutti quei paesi che, al loro interno, la combattono da tempo.
Negli ultimi anni, infatti, gli sviluppi sociali e legislativi raggiunti soprattutto nell’Africa occidentale, ha portato diversi Paesi a considerarla illegale.
Ma al di là delle leggi, si è diffusa la consapevolezza che le mutilazioni femminili siano un vero oltraggio all’infanzia; molte le associazioni africane che ogni giorno lottano per il rispetto dei diritti delle bambine e delle donne. Una consapevolezza che si va radicando anche nella mentalità maschile e, in quella parte dell’Africa, quella orientale che insieme ad alcune aree del Medio Oriente si registrano le maggiori resistenze all’abolizione della Mgf.
Sonyanga Ole Ngais e i suoi guerrieri: la consapevolezza maschile
Una prova della presa di coscienza maschile è rappresentata da Sonyanga Ole Ngais, il 27enne capitano del Maasai Cricket Warriors . A nome di tutta la squadra ha dichiarato che non sposeranno mai ragazze sottoposte a infibulazione o a qualsiasi altro intervento simile.
Promotori della campagna #EndFGM contro l’infibulazione, la squadra keniana a ogni sua partita invita gli spettatori maschili a fare lo stesso.
Indicative le parole di Sonyanga Ole Ngais quando ha annunciato l’adesione alla campagna: “Voglio metterci la mia faccia da uomo”. Un uomo che non dimentica la dolorosa esperienza vissuta dalla sorella maggiore.
La squadra Massai Cricket Warriors gode di fama internazionale ed è davver0 singolare. È costituita da atleti maasai, il popolo che abita tra il Kenya e la Tanzania, dove per tradizione gli uomini sono chiamati guerrieri. I suoi atleti hanno la caratteristica di giocare a uno sport tradizionalmente bianco come il cricket, indossando i costumi rossi della loro tradizione. Ma soprattutto sono noti per il loro impegno civico e sociale.
Si sono dati una missione: quella di evolvere i giovani della comunità Maasai del Kenya attraverso la diffusione del gioco del cricket nelle scuole.
Tra i loro obiettivi principali: estendere l’istruzione attraverso la consapevolezza della sua importanza, colmare i divari sociali, ridurre i comportamenti a rischio, educando le persone al rispetto della salute e, ampliando i loro orizzonti mentali per abbattere i pregiudizi culturali.
Cercano di dare ai giovani della loro comunità un senso di appartenenza, sostegno e speranza, Denunciano e si battono soprattutto contro una tradizione patriarcale che concede scarsi diritti alle donne, sottoponendole alla Mgf e ai matrimoni precoci. Anche da tali pratiche, sostengono i Warriors deriva la diffusione del virus Hiv/AIDS, che mette a serio rischio il futuro dei Maasai.
In coerenza alle loro idee, hanno messo la loro notorietà a servizio della causa delle Mgf, per la quale e in nome dell’uguaglianza di genere, hanno girato, nel 2015, il documentario intitolato Warriors, selezionato da numerosi festival internazionali.
Sfidano gli anziani della loro comunità, contrari alle loro campagne e incontrano resistenza in molti strati della società keniana. In Kenya, il Parlamento ha proibito la pratica della mutilazioni genitali dal 2011 e la combatte con norme e sanzioni severe. Un primo passo, ma ancora non sufficiente per porre fine a quest’abitudine ancestrale.
É parere unanime delle associazioni che le leggi da sole non bastano e vanno accompagnate da iniziative di sensibilizzazione presso le comunità, il calo in atto dell’uso della pratica fa presagire che entro una generazione sarà completamente sradicata.
Di cosa stiamo parliamo
Le mutilazioni genitali femminile sono procedure che comportano la rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni e lesioni agli organi genitali femminili.
Configurabili come riti di iniziazione, molto antichi e privi di connotazione religiosa, segnano il passaggio dall’infanzia o adolescenza all’età adulta. E hanno lo scopo di impartire alle ragazze elementi di igiene personale e responsabilità verso la prole e il loro tradizionale ruolo all’interno della comunità.
Sono diffuse in gran parte dell’Africa sub tropicale, in alcuni paesi del Medio Oriente e nel sud-est asiatico.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) le mutilazioni genitali femminili sono di 4 tipi: l’infibulazione o circoncisione femminile, l’escissione del clitoride, la circoncisione faraonica o sudanese e il quarto tipo che racchiude vari interventi sugli organi genitali.
La tipologia della pratica risponde alla tradizione del Paese, cosi varia l’età delle bambine “iniziate”, che va dai 6 ai 14 anni.
Le conseguenze psico-fisiche possono essere molto gravi. Nel corso degli interventi si possono verificare emorragie e infezioni. Successivamente causano cistiti croniche, difficoltà nei rapporti sessuali e al momento del parto un rischio di notevole entità sia per la madre sia per il bambino.
Ad oggi si stimano circa 3 milioni di bambine sottoposte alle mutilazioni, della quali circa mezzo milione perde la vita per complicanze durante la procedura. Procedura che in Occidente, presso le immigrate, avviene in totale clandestinità.
La legge ha finalmente preso le distanze da una pratica dannosa ed immotivata, ora il compito principale è rendere partecipi le popolazioni a livello sociale e culturale. Il cammino non può che essere in salita.