Femminicidi e giornalismo

Deresponsabilizzazióne: secondo Lessico del XXI Secolo della Treccani, il termine definisce “un comportamento diffuso nella società contemporanea che porta a evitare l’assunzione di responsabilità e a tutelare solo la propria convenienza e il proprio interesse come se fossero un diritto, senza tener conto di un bene collettivo”.

Ora applichiamo tale significato alla disparità di genere e, nello specifico, alla violenza di genere e salta fuori che nel giornalismo – che spesso, però è, necessariamente e inevitabilmente, il riflesso della società – è quasi una consuetudine.

Nel corso del progetto educativo antimafia e antiviolenza organizzato nel 2022 dal Centro Studi Pio La Torre (già citato nel nostro articolo Donne e mafie e ampiamente raccontato su difesapopolo.it) è emersa una “retorica” giornalistica deresponsabilizzante nei confronti dell’assassino che ha determinato (addirittura), una classifica d’interesse da parte dei lettori nei casi di femminicidi: non tutti, infatti, sembrano suscitare lo stesso interesse.

Fa più notizia l’omicidio di una donna giovane: 38% di articoli – è emerso dal progetto – a fronte di un 4,8% di casi di vittime fra i 10 e i 16 anni di età; scendono al 12,8% gli articoli verso i femminicidi di donne la cui età va dai 40 ai 59 anni. Fino ad arrivare alla vittima di età avanzata che non fa notizia. Prepotenti riflessi di ageismo fino alla fine.

Una strana classifica nonostante risulti che il 92% dei femminicidi avviene in ambito familiari e/o amicale, altrimenti non sarebbero definiti tali E, almeno fino a ora, si è sempre parlato dell’aggressore preso da un “raptus” come causa dell’uccisione o di uomini con patologie psichiche, senza approfondire che successivamente soltanto l’8% dei casi riceve una diagnosi di psicosi grave.

In questo modo il femminicidio viene raccontato come “episodico” quando in realtà, sostengono gli esperti, si tratta di violenza “nella maggior parte dei casi, sistematica e commessa da uomini normali senza precedenti penali”.

Si assiste così a una “rappresentazione distorta della realtà” sicuramente involontaria ma che muta la percezione dell’evento, con il rischio di rafforzare gli stereotipi della donna, vittima sì ma “che se le andata a cercare”, deresponsabilizzando, come è avvenuto per millenni, l’omicida.

 

 

Immagine: photo by  Suzy Hazelwood – pexels.com

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