Drogati di legge senza terapia
La sarabanda legislativa intorno all’uso di droghe leggere e droghe pesanti popola le nostre aule parlamentari da decenni. Eppure, la quadra non si riesce a delineare.
L’anno solare è iniziato con l’approvazione del decreto legislativo che derubrica da illecito penale a illecito amministrativo le azioni improprie relative alla coltivazione della cannabis a scopo terapeutico. Il decreto è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il 15 gennaio 2016 e fa riferimento soltanto ai centri autorizzati alla coltivazione della cannabis e non ai privati cittadini.
In parallelo, si sta aprendo il varco in Parlamento, il disegno di legge C 3328 “per la depenalizzazione e parziale liberalizzazione della vendita” dei cannabinoidi che è in corso di esame in Commissione Affari Sociali dal 13 gennaio 2016. La proposta di legge che reca la firma di 270 parlamentari sia della maggioranza sia dell’opposizione è stata presentata il 15 gennaio 2014.
Aldilà dell’iter parlamentare e dei suoi tempi estremamente “comodi”, la necessità di regolamentare in maniera chiara e definitiva, in particolare l’aspetto terapeutico dell’uso della cannabis è urgente e non procrastinabile.
I benefici che la cannabis arreca alle persone che vivono in condizioni molto critiche se non di grande sofferenza sono sostanziali. Ripercorriamo in breve la storia della cannabis ad uso terapeutico.
I come e i perché dell’uso terapeutico
E si che l’efficacia dei farmaci cannabinoidi, oltre ad essere nota alla letteratura medica dalla fine del XIX secolo, è stata ampiamente e universalmente studiata, dimostrata e applicata nella cura di determinate patologie, in alcune parti del mondo occidentale, fin dalla fine degli anni 70 dello scorso secolo.
Thc, (tetraidrocannabinolo) e il Cbd (cannabidiolo) sono i principali principi attivi della cannabis. Nel trattamento medico, svolgono varie funzioni di cura e alleviamento nei confronti di patologie molto serie.
Particolarmente efficace si dimostra nella riduzione della nausea, provocata ai malati tumorali dalla terapia chemioterapica. La nausea è un forte effetto collaterale della chemio, che può portare il malato a desistere dalla cura.
Altrettanto, se non più importante si è rivelata per i malati di sclerosi laterale amiotrofica (sla), dove il Thc compie una funzione sia lenitiva sia curativa.
La sla è una malattia neurodegenerativa che determina il blocco progressivo del sistema muscolare, senza però compromettere la capacità cognitiva, intellettuale ed empatica del malato. In questo caso Il cannabioide riduce lo spasmo muscolare e migliora il tono muscolare. Sia nel caso dei pazienti tumorali sia in quelli affetti dalla sla, va sottolineata l’importante capacità antidolorifica della cannabis che, oltretutto combatte l’insonnia, migliorando considerevolmente la qualità della vita degli infermi.
Altri impieghi di successo in campo medico, sono stati riscontrati nella cura e nel controllo dei sintomi delle Mielopatie (malattia degenerativa del midollo osseo che si sviluppa in varie forme) e del Morbo del Parkison. Nel primo caso i principi attivi della cannabis, agiscono sugli spasmi e i movimenti involontari che caratterizzano la patologia. Cosi come nel Parkinson, usato come coadiuvante della terapia, agisce contro la rigidità muscolare.
In entrambe le malattie, il Thc è molto efficace per il suo effetto lenitivo.
Tra le altre patologie che curano o migliorano con l’uso dei cannabioidi, ricordiamo: la sclerosi multipla, l’anoressia, il glaucoma oculare, il diabete, l’epilessia, artrite reumatoide.
Da sottolineare che la cannabis, non produce tossicità e minimizza gli effetti collaterali, nell’organismo.
Ma le canne, no
Per un efficace uso terapeutico è fondamentale individuare il dosaggio della sostanza e la durata di somministrazione. Basilare, quindi, il controllo costante del medico, il quale decide la quantità, che varia per tipo di patologia e gravità della stessa e i cicli di somministrazione, che si alternano con periodi di sospensione.
L’assunzione può avvenire per via orale (compresse), per inalazione (con i dispositivi medici già in uso) o in collirio nei casi di glaucoma.
Attenzione a non confondere la somministrazione della sostanza, con l’uso delle “canne”.
Come leggiamo sul sito dell’Associazione Luca Coscioni, le”canne” non solo non sono curative ma risultano dannose. Prima di tutto perché “il fumo” è sottoposto al processo di combustione, i cui effetti di tossicità (gravi) superano perfino quelli della sigaretta da tabacco. E in seconda analisi, perché la pianta essiccata contiene un indice più alto di principio attivo, che rende difficile il dosaggio.
L’ ingorgo legislativo
Detenere la droga anche leggera e in modica quantità, in Italia è un reato. Come abbiamo già scritto, la normativa giuridica in materia è complessa e fumosa.
L’ultima legge varata dal Parlamento è la 49 2006, famosa come legge Fini -Giovanardi, la quale equiparando le droghe leggere alle droghe pesanti, rendeva labile il confine tra detenzione di droga per uso personale e quella al fine di spaccio, con conseguente aggravante delle pene anche per i primi.
Un notevole passo avanti è stato compiuto nel 2014 grazie alla Corte Costituzionale, la quale con la sentenza del 25/02/2014 n. 32, ha bocciato la legge Fini-Giovardi, per violazione all’articolo 77 (coma 2) della Costituzione. Secondo la prassi è, così, rientrata in vigore la legge precedente, la Jervolino-Vassalli del 1990, considerata “proibizionista” e immune al risultato del referendum del 1993, che aboliva le sanzioni penali per l’uso personale. Ma si è tornati all’importante distinzione tra droghe leggere (marijuana e hashish) e droghe pesanti (cocaina, eroina, anfetamine, etc.), e la variazione di pena a secondo del tipo di droga detenuta.
La distinzione tra uso personale e spaccio è definita da apposite Tabelle, che indicano il limite di milligrammi per ogni sostanza.
A queste tabelle fa riferimento il giudice, il quale però, può, in piena autonomia, decidere se un imputato è uno spacciatore oppure no, basandosi sulla sua storia personale e sulle circostanze, a prescindere dalla quantità di droga trovata in suo possesso.
Cosa dice la legge per l’uso terapeutico
Diversa la storia del riconoscimento dell’uso terapeutico della cannabis.
Nel 1997 un decreto ministeriale DM 2/97, ha autorizzato l’uso di farmaci a base di cannabinoidi, purché fossero di produzione estera.
Nel 2007 l’efficacia delle terapie viene ribadita dall’allora ministro della salute Livia Turco, la quale con il decreto ministeriale n. 98 del 28 aprile 2007, apre la strada al Thc (il principio attivo), e al Dronabinol e al Nabilione, farmaci analoghi di origine sintetica, aprendo l’accesso alle cure mediche.
Nel 2013 il ministro della Salute Renato Balduzzi, riconosce la validità per l’uso medico anche alla pianta di cannabis nella forma vegetale e dei suoi derivati.
Ma nonostante ciò, in Italia la piantagione della cannabis è consentita soltanto a fine sperimentale per scopi scientifici e deve essere autorizzata dal Ministero della Sanità. L’unica piantagione italiana risiede a Firenze, nello stabilimento farmaceutico militare. Iniziato a piantare l’anno scorso, per il 2016 si prevede una produzione di 100 chili annui a fronte di migliaia di richieste.
L’unico farmaco autorizzato al commercio italiano e a carico della sanità nazionale è il farmaco per la sla, gli altri provengono dai Paesi Bassi e, questo, comporta un notevole rincaro dei costi.
Altra grave anomalia risiede nel fatto che il decreto del 2007, non è stato applicato su tutto il territorio nazionale. Le regioni che hanno approvato il provvedimento sono le seguenti: Veneto, Toscana, Liguria, Marche, Friuli Venezia Giulia, Puglia, Abruzzo, Sicilia e Umbria, alle quali si aggiungono il Piemonte (2015) e la Lombardia (2016). Undici, quindi, su le venti regioni che costituiscono l’Italia.
Si procede a macchia di leopardo, anche perché ogni regione sopra citata, pur riconoscendo l’erogazione dei cannabinoidi a carico del servizio sanitario, ha dettato e detta le proprie disposizioni. E le possibilità di rimborso a livello regionale, per i malati, sono basse. Soltanto la Toscana a oggi, ha previsto il rimborso anche per i pazienti.
Le procedure per l’accesso ai farmaci sono lunghe e farraginose, per tutti gli attori in campo. Vediamo in breve l’iter burocratico. Il malato ottiene il permesso all’uso del farmaco dopo aver dimostrato che quelli tradizionali sono inefficaci, il medico quindi deve inviare il modulo di richiesta d’importazione alla Farmacia Ospedaliera o Territoriale, la quale a sua volta deve fare richiesta e ottenere il permesso del Ministero della Salute e del produttore estero e dei relativi fornitori. Questa serie complicata di passaggi porta via da un minimo di tre settimane a un massimo di tre mesi. Tre mesi, come la validità della prescrizione medica, per il malato.
Alle barriere burocratiche si sommano quelle culturali; spesso l’uso terapeutico è confuso con l’uso ricreativo, alimentando i pregiudizi che impediscono di comprendere appieno l’efficacia medica della sostanza, creando scarsa informazione, confusione e, soprattutto, ostacolando la formazione di un’opinione comune.
Come abbiamo visto, il disomogeneo panorama nazionale aggrava la situazione, portando gli infermi a essere considerati malati di serie A e malati di serie B, a secondo della regione di appartenenza. E una domanda sorge spontanea: è tutto questo umanamente ed eticamente accettabile?
Fonti consultate
www.associazionelucacoscioni.it