Paolo Cherchi Usai. Il guerriero della cultura audiovisiva

Il CDA del Centro Sperimentale di Cinematografia, composto dal Presidente Felice Laudadio e dai consiglieri d’amministrazione Roberto AndòGiancarlo Giannini e Carlo Verdone, riunitosi in data 15 giugno 2020, ha deciso la nomina di Paolo Cherchi Usai a nuovo direttore della Cineteca Nazionale. Noi di abbanews.eu lo abbiamo intervistato per scoprire la meraviglia del patrimonio cinematografico.

Ci può descrivere in breve il valore della Cineteca Nazionale?

Un magnifico diamante allo stato grezzo. Se fossi capace di continuare il percorso dei miei predecessori, mettendone in mostra le sfaccettature e facendolo risplendere come merita, avrei conseguito il mio scopo.

Lei è uno dei massimi esperti nel campo della conservazione e del restauro cinematografico e audiovisivo. Ci può descrivere come si avvicinò a questa professione e quali sono le possibilità per un giovane che oggi intenda seguire questo percorso formativo-professionale?

Volevo laurearmi in storia dell’arte, e avevo in mente una tesi sul restauro di un trittico di Piero della Francesca. Il mio relatore, Corrado Maltese, mi fece intendere che c’erano già troppi restauratori di dipinti sulla piazza, dandomi così il tempo di sterzare dalla pittura al cinema. Insegno restauro del film a otto agguerriti giovani della scuola di restauro del CSC di Lecce, e il mio messaggio è stato chiaro dal primo giorno del corso: non basta essere bravi. C’è bisogno di guerrieri della cultura audiovisiva. L’etica del restauro è una formula vuota se non si impara a difenderla e promuoverla, anche a proprio rischio.

Come fondatore delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, che ruolo considera abbia il cinema muto nel panorama cinematografico attuale? Svolge ancora un’influenza sugli addetti ai lavori e interesse negli spettatori?

Trent’anni fa il cinema muto era oggetto di nostalgia. Lo è anche oggi. L’unica differenza è che la nostalgia è diventata di moda. Piace agli spettatori, e gli addetti ai lavori tendono ad approfittarne.

Potrebbe fornirci una sua definizione di che cosa sia il cinema?

È saper vedere immagini che si muovono: un’arte popolare, e perciò difficile. Musica per immagini; poesia, se vuole, ma è la stessa cosa. Il suo contrario è un termine di moda, “contenuto”, roba adatta al pesce in scatola. Il tonno è “contenuto”, con tutto il rispetto per i pesci; il vero cinema non si inscatola mai, e soprattutto non si “consuma”.

Quale pensa sia stato ed è attualmente il maggior contributo dell’Italia alla storia del cinema?

Il coraggio di rischiare, di sbagliare, di mettersi in gioco, magari con incoscienza, ma con sincerità. Giovanni Pastrone lo aveva fatto nel 1914 con Cabiria; più di cento anni dopo, Matteo Garrone ci ha riprovato con Il racconto dei racconti. Talenti diversissimi fra loro, ma animati dallo stesso fuoco.

Un film, un/una regista, una/uno scenografo/a che ammira in maniera particolare?

Realizzare un film è un’impresa che fa tremare i polsi. Ho diretto due lungometraggi, piccoli e indipendenti, e so di cosa sto parlando. Un film riuscito male, ma dalle intenzioni oneste, è come un’intenzione nascosta. Nutro un profondo rispetto per tutti coloro che sono riusciti a portare a termine un film, cioè a realizzare la loro visione attraverso il cinema. Non importa se ce l’abbiano fatta o meno. Li ammiro e li rispetto tutti, indipendentemente dalla qualità del risultato, perché ho imparato quanto costa provarci.

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