“Ciao sono Io” e lo smartphone si accende

“Ciao smartphone”. “Buongiorno carissimo”. Presto la nostra giornata potrebbe cominciare così: con una conversazione con il nostro cellulare. Una conversazione fatta di sguardi. Perché se ne vocifera già da tempo, adesso sembra una straordinaria realtà fattibile: il riconoscimento facciale da parte di smartphone sempre più sorprendentemente intelligenti par cosa fatta.

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In pratica: l’idea è quella di mandare direttamente in pensione diverse generazioni di sistemi di identificazione da parte delle nostre appendici tecnologiche: prima c’erano i PIN, poi le PASSWORD, quindi i SEGNI, adesso le IMPRONTE DIGITALI e (forse) il RICONOSCIMENTO DELL’IRIDE. Ecco: tutto questo spazzato via da un selfie. Perché il nostro smartphone sarà in grado di riconoscerci semplicemente mettendogli davanti il nostro bel facciotto.

Ad ipotizzare questa evoluzione della tecnologia di riconoscimento degli utenti è, come riporta il sito 9to5mac, l’analista Ming-Chi Kuo, di KGI Securities, esperto di Apple, casa che sarebbe ad un passo dal realizzare questa caratteristica epocale tanto da pensarla disponibile, se non forse sulla prossima generazione di iPhone (l’iPhone 8), magari su quella dopo. Quindi, entro una quindicina di mesi…

Il motivo per il quale la Apple vorrebbe integrare questa tecnologia nel proprio smartphone, par strano a dirsi, è principalmente di design: a quanto dice Ming-Chi Kuo nell’articolo citato (riportato in Italia prima di tutti dall’Ansa) l’idea nasce dall’intenzione di Apple, più volte annunciata sui siti di “gossip tecnologico”, di creare uno smartphone che non abbia tasti. Ovviamente, uno smartphone senza tasti è anche uno smartphone nel quale non si può alloggiare un lettore di impronta digitale. E quindi, ecco lo sprint che ha fatto questo progetto.

Che pare avveniristico, ma in fondo lo è solo per il dispositivo su cui è immaginato: esistono infatti già moltissimi esempi di accessi messi in sicurezza con il riconoscimento del volto degli inclusi. Ma è la prima volta che si pensa di dotare di una tecnologia simile un cellulare, almeno, uno che non sia un prototipo o un prodotto di nicchia.

Perché, come dicevamo, la tecnologia per farlo esiste già, e si basa sull’analisi del volto della persona coinvolta. Congiungendo infatti i punti che caratterizzano il nostro viso (punti più alti degli zigomi, posizione degli occhi, posizione delle labbra, proporzioni del naso e così via) si crea in effetti un reticolo di informazioni univoche che rendono questo sistema molto più affidabile rispetto a quello che si basa sull’impronta digitale.

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Ma perché questa cosa è così epocale, tanto da meritarsi un articolo su Abba? Uno smartphone senza tasti sarà pure fighissimo, ma non così inverosimile (né particolarmente affascinante). Questa tecnologia è epocale per le possibili implicazioni che potrebbe avere.

Immaginate uno smartphone che sia in grado di riconoscerci e – in base a questo – di accendersi o meno. Beh, pensare che sia anche in grado di intuire il nostro stato d’animo, mostrandoci contenuti selezionati in questo modo, non è certo un volo pindarico particolarmente fantascientifico. Pensiamoci bene: in fondo, lo sta già facendo: l’algoritmo che comanda i social network (e non solo quelli…) è tranquillamente in grado di mostrarci soltanto i contenuti che ci piacciono, tralasciando gli altri. E se alla base di questa scelta, oltre all’analisi comparata e accuratissima delle nostre precedenti esperienze – come avviene oggi – ci fosse (anche) un sensore in grado di sapere di che umore siamo, di cosa abbiamo voglia, di cosa ci interessiamo, semplicemente facendoci un selfie a nostra insaputa?

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E poi: riuscite anche solo a immaginare l’implicazione commerciale di questa idea? I pubblicitari farebbero carte false per poter intuire il nostro stato d’animo mentre guardiamo le loro inserzioni. Soprattutto, farebbero carte false pur di sapere cosa vogliamo vedere, cosa ci interessa, al punto da investire ogni anno miliardi di euro (o di dollari) proprio nei social network di cui parlavamo prima.

Infine: e la privacy? E il nostro libero arbitrio tecnologico? E la nostra libertà concettuale? La nostra disponibilità a concedere attenzione a cose che ci interessano? Il nostro compiacimento nell’utilizzo di tecnologie di informazione che ci danno la sensazione di essere costantemente connessi con tutto il mondo? Ed anche: la nostra libertà dal volere o non volere diffondere il nostro stato d’animo? La nostra libertà di esserci o non esserci nel mondo?

Sicuramente potrà avere una forte valenza nella gestione di alcune forme di disabilità, ma nell’uso ordinario di uno smartphone, seppure “smart”, pur sempre un dispositivo di comunicazione, siamo proprio sicuri di volere un cellullare  che saprà chi siamo semplicemente guardandolo?

 

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