Tributo a Gianni Brera nel centenario della nascita
L’estate stava finendo, su una millecento famigliare, stracarica di bagagli, ritornavamo dalle vacanze trascorse in Trentino. Lo zio Nico che guidava assecondando le nostre grida di gioia, scelse di fare una sosta per pranzare. Al ristorante dopo il primo, in attesa del secondo piatto, mi guardai attorno, e, ad un tavolo vicino, erano seduti due uomini che, tra un bicchiere di rosso, ed una bistecca, chiacchieravano a mezza voce. Spalancai gli occhi e con mia grande sorpresa riconobbi Gianni Brera e la sua folta capigliatura.
Ero ancora una fanciulla, ma il suo Arcimatto era un pezzo che mi “bevevo” tutto di un fiato. Era per me il ‘Veronelli’ del calcio ed il suo asserire che le partite si vincano anche prima di giocarle perché la tattica spesso è più importante delle “giocate”, mi aveva aperto una visione diversa del gioco del calcio. Cominciavo a distinguere la differenza tra il Metodo ed il Catenaccio e perché definiva ‘Abatini’ Gianni Rivera ed un po’ anche Giancarlo Antonioni.
Era decisamente una leggenda quel giornalista che già nel 1936 scriveva sulla Serie C, che nel ’45 entrò nella Gazzetta dello Sport assunto da Bruno Roghi, e che ne divenne poi direttore nel ’49.
Dal 1967 diresse proprio il Guerrin Sportivo, definito ‘Guerrino’ di letterati perché ospitava quali giornalisti le firme di Enzo Tortora e Cesare Lanza, Diego Scarsi e Elio Domeniconi. (Persone che negli anni a venire anch’io conobbi).
Ma torniamo a quel pranzo. Gettando la timidezza dietro le spalle, mi alzai, mi diressi verso quel tavolo e, sottovoce, trasmisi a Gianni Brera i miei complimenti per i sui scritti, definendomi sua ammiratrice.
Mi guardò da sopra gli occhiali che gli erano un poco scesi sul naso, appoggiò il sigaro sul bordo di un portacenere e, sulle prime, non si pronunciò. Poi con quel suo tono un po’ burbero e un po’ faceto, sorrise, mi chiese il nome e da dove venivo. Risposi balbettando e gli dissi che ero genovese, al che si illuminò dicendo: “Sono un tifoso del Genoa”, il ghiaccio era rotto, le mie orecchie non potevano ricevere nulla di più lieto dato che il mio tifo era dedicato esclusivamente ai colori rossoblù.
Questa sua simpatia era diventata palese quando un giorno disse: “Quando il Genoa già giocava, gli altri si accorgevano di avere i piedi solo quando gli dolevano!” Poi, quasi scusandosi si rivolse al suo compagno di tavolo e me lo presentò: “Vedi, fanciulla, questi è Giovanni Mosca. Leggi come scrive sul Corriere della Sera, diverrai una sua estimatrice”.
Il cameriere aveva depositato la seconda portata, lo zio mi chiamò, ed io salutai Gianni Brera ed il suo amico. Il mio domani non lo conoscevo ancora, ma quella luce accesa durante quell’incontro non si spense più, ed appena sedicenne cominciai a scrivere di calcio, divenendo la prima corrispondente donna nel 1962 della Gazzetta dello Sport che era diretta da Gualtiero Zanetti.
Qualche anno dopo i miei pezzi venivano raccolti al telefono dal figlio di Mosca, Maurizio, protagonista di tante puntate al Processo del Lunedì di Aldo Biscardi.
Non ho e non avrò mai la straripante spontaneità, nè i geniali paradossi della scrittura del grande Gianni, nè sarò capace di portare il lettore a leggere fino in fondo un mio pezzo come invece faceva lui, anche perché quei suoi zibaldoni di parole erano un caleidoscopio di aneddoti, di fotografie di caratteri plasmati dalla sua penna come un abito fatto da un gran sarto su misura per ciascun personaggio.
Ma l’incontro di quel giorno di fine agosto, fu per me come una magia che mi rapì, rimanendone contagiata, per questo gliene sarò eternamente grata.