L’impegno internazionale e dei Premi Nobel per fermare la violenza contro i Rohingya
L’ufficio del procuratore generale australiano ha respinto la richiesta di procedere per crimini contro l’umanità nei confronti del leader de facto, nonché ministro degli Esteri del Myanmar, Aung San Suu Kyi, per la situazione della minoranza islamica Rohingya.
L’ha reso noto un portavoce del procuratore generale di Sydney, dichiarando all’agenzia australiana AAP il 17 marzo 2018 che la causa intenta contro il leader de facto non può procedere perché “Suu Kyi gode della piena immunità, al punto da non poterle notificare nessun atto giudiziario”.
Lo stesso portavoce ha ricordato che la legge internazionale concede l’impunità sia ai capi di Stato e di Governo sia ai ministri degli Esteri.
Il ricorso nei confronti del leader de facto del Myanmar era stato presentato da un gruppo di avvocati australiani specializzati in diritto internazionale e diritti umani, con la seguente motivazione: Suu Kyi non ha usato il potere che gli conferisce il suo incarico per impedire che le forze militari del suo Paese procedessero nella deportazione ed espulsione della minoranza Rohingya dalle loro case nello stato di Rakhine (ex Arakan) nell’ovest del Myanmar; secondo l’Onu una violenza “senza precedenti.
La dichiarazione lontana dalla realtà e la gente scende in strada
Il ricorso è stato presentato il 16 marzo 2018, in occasione del vertice dell’Associazione della Nazioni del Sud-est Asiatico (ASEAN) in atto nella capitale australiana. I membri dell’ASEAN sono Filippine, Indonesia, Malesia, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Myanmar, Laos, Cambogia e Timor Est.
Al summit ASEAN – Australia, che si è svolto a Sydney dal 12 al 18 marzo 2018, ha partecipato anche Aung San Suu Kyi. Secondo una nota ufficiale del vertice “l’Australia e l’ASEAN sono impegnate a lavorare insieme per formare una regione sicura e prospera attraverso una maggiore cooperazione su sfide regionali sempre più complesse, tra cui la cyber, la cooperazione marittima e la tratta delle persone”.
Una nota che stride le centinaia di persone che sono scese a manifestare nelle strade di Sidney contro gli abusi dei diritti umani commessi nei Paesi dell’ASEAN, soprattutto contro i Rohingya e per le persecuzioni che il Governo della Cambogia commette da tempo contro i membri del partito di opposizione, il Cambodia National Rescue Party (CNRP).
3 Premi Nobel per la Pace tentano la strada del CPI
Nel frattempo tornano a farsi sentire le voci dei Nobel per la Pace (lo stesso premio che la stessa Aung San Suu Kiy ha ricevuto nel 1991), questa volta per passare ai fatti.
La yemenita Tawakkul Karman, la nord irlandese Mairead Maguire (da sinistra nella foto a lato) e l’iraniana Shirin Ebadi hanno intenzione di formalizzare la denuncia contro il Governo del Myanmar presso la Corte Penale Internazionale (CPI) per crimini contro l’umanità e genocidio del popolo Rohingya. Possiedono prove e testimonianze dopo la loro visita nel campo profughi di Cox’s Bazar (Bangladesh) dove i Rohingya si sono rifugiati (circa 700mila) dopo l’escalation di violenze dall’agosto 2017 dei militari birmani.
Le tre Nobel hanno visitato il maggior punto di raccolta degli esuli Rohingya con la delegazione Nobel Women’s Initiative, l’organizzazione costituita dalle personalità femminili che hanno ottenuto il prestigioso premio, giunta in Bangladesh per portare aiuto alle donne e ai bambini della comunità islamica.
Bulldozer in azione. I villaggi dei Rohingya non esistono più e con essi cancellate anche le prove
Il Bangladesh e il Myanmar hanno raggiunto un accordo per cui le migliaia di Rohingya costretti alla fuga devono essere rimpatriati. Ma per vivere come e dove? La risposta ce la fornisce il Rapporto di Amnesty International, risultato di un monitoraggio locale costante, attraverso l’analisi delle immagini satellitari e testimonianze oculari.
Si legge nel Rapporto dell’Ong umanitaria che “dopo l’ondata di violenza che ha percorso lo Stato di Rakhine in Myanmar” dall’estate 2017 – e che ancora persiste come realizzazione di un progetto di “pulizia etnica” – si è affiancata “l’appropriazione delle terre” dove sorgevano i villaggi dei Rohingya.
Dal gennaio 2018 l’esercito del Myanmar con i bulldozer “sta radendo al suolo” quel che resta dei villaggi dati alle fiamme dal 17agosto 2017 e la vegetazione circostante per fare posto, appunto alle nuove infrastrutture di sicurezza: strade, basi militari ed eliporti.
Scrive Amnesty International “Il passaggio dei bulldozer su interi villaggi è qualcosa di incredibilmente spaventoso. Le autorità di Myanmar stanno radendo al suolo anche le prove dei crimini contro l’umanità“.
Foto: dall’alto e al centro: proteste a Sydney contro l’Asean (photo by Rick Rycroft); da sinistra Tawakkul Karman e Mairead Maguire; in basso photo by Soe Zeya Tun 2016 – Image Code – Reuters