Il giudice che voleva cambiare la società con le regole democratiche del confronto
Il 30 agosto 2018, Emilio Alessandrini, sostituto procuratore di Milano ucciso nel 1979 dal terrorismo degli anni di piombo, avrebbe compiuto 76 anni. La seduta plenaria deI Consiglio Superiore della Magistratura, per celebrare la ricorrenza, ha autorizzato la desecretazione del fascicolo e degli atti su Emilio Alessandrini, che sono pubblicati sul sito del CSM dal giorno del genetliaco del giudice.
A Milano, il 29 gennaio 1979, dopo aver accompagnato il figlio Marco a scuola, Emilio Alessandrini era in macchina ferma al semaforo dell’incrocio fra viale Umbria e via Muratori, quando il calcio di una pistola frantumò il vetro della sua automobile e ricevette un colpo di pallottola alla testa, bersagliato poi da altri proiettili. Muore così Alessandrini, a soli 36 anni: un “giudice ragazzino” la cui vita fu spezzata da un commando terroristico. A sparare furono Sergio Segio e Marco Donat Cattin, rispettivamente fondatore e membro dell’organizzazione armata eversiva di estrema sinistra Prima Linea.
Emilio Alessandrini, nato il 30 agosto 1942 a Penne (Pescara), dopo la laurea in Giurisprudenza, nel 1967 vinse il concorso in magistratura. Svolto il tirocinio presso la Procura di Bologna e ricevuto parere più che positivo ottenne il conferimento delle funzioni giurisdizionali e venne nominato sostituto procuratore della Repubblica a Milano, dove svolse tutta la sua carriera, occupandosi di terrorismo.
Fin dai primi passi nella magistratura, infatti, il lavoro di Alessandrini coincise per intero con gli anni di piombo (dal film omonimo della regista Margarethe von Trotta), termine con il quale s’intende quel cupo, tetro e tragico periodo storico caratterizzato dalla realizzazione della lotta armata con violenze di piazza e da atti di terrorismo, che va dalla fine degli anni ’60 ai primi anni ’80 del Novecento.
Nei primi 18 mesi da sostituto procuratore Alessandrini definì 687 procedimenti, partecipò a 116 udienze e redasse 97 requisitorie. Un lavoro assiduo che portò il Consiglio giudiziario di Milano a scrivere di lui encomiandolo per “ lo zelo” e “la profondità d’indagine e il perfetto equilibrio”.
Nel 1972 affrontò la prima grande inchiesta della sua carriera: la strage milanese di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, storicamente indicata come l’inizio degli ‘anni di piombo’. Nella relativa requisitoria che depositò in tribunale nel 1974, il giudice Alessandrini oltre a raccontare le responsabilità nella strage milanese dei neofascisti (incriminati: Franco Freda e Giovanni Ventura) si soffermò sui collegamenti fra l’eversione di estrema destra con fronde dei servizi segreti dello Stato. Nel 1973 il giudice ricevette parere favorevole alla sua nomina a magistrato.
Venne il momento di occuparsi dell’eversione di estrema sinistra: Alessandrini fu tra i primi giudici a indagare sul fenomeno ed entrò nel mirino delle organizzazioni armate. Eppure (o forse per questo) il giudice ragazzino affrontava il problema eversivo non solo attraverso la prospettiva giudiziaria: cercava di comprendere il fenomeno della lotta armata dal punto di vista sociale.
L’articolo del CSM dedicato alla biografia di Alessandrini riporta lo stralcio di una considerazione che lo stesso giudice ebbe a fare nel corso di un convegno sul tema. “ Abbiamo già sbagliato in passato: esistono i gruppi della lotta armata per il comunismo che, in quanto tali, non sono più recuperabili a un discorso di prevenzione; per loro c’è solo un problema di repressione – sosteneva Alessandrini – Bisogna però rimuovere le cause che ne favoriscono l’ampliamento e il ricambio ed è perciò necessario recuperare a un discorso istituzionale le fasce di non dissenso o addirittura di consenso alle imprese terroristiche, fornendo in concreto l’immagine di una società che può essere cambiata rispettando realmente e lealmente le regole democratiche del confronto”.
Il giorno dopo il mortale attentato, il giornalista Walter Tobagi (che morirà poco più di un anno, in un attentato della stessa matrice ma rivendicato da un’altra sigla) scriveva di Alessandrini: “Era un personaggio simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli”, con quella “faccia mite, da primo della classe che si lascia copiare i compiti”; Alessandrini era “il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare”.
Tutti tranne che per l’eversiva Prima Linea che nella nota di rivendicazione dell’attentato asserì che aveva colpito Alessandrini proprio per l’impegno che profondeva nel miglioramento della giustizia: “I giudici riformisti – sostenne l’organizzazione terroristica – sono più pericolosi dei conservatori… come controllori dei comportamenti sociali e proletari… ”. E continuò a uccidere.
Fotografie dall’alto in basso: Emilio Alessandrini con il figlio Marco; Emilio Alessandrini; Milano 1979, manifestazione commemorativa