I contenuti dei social network. Una responsabilità collettiva
L’avvento della telefonia intelligente dotata di camera fotografica e telecamera, com’è noto, ha cambiato la catena di produzione delle immagini informative. Posto che chiunque può fotografare o filmare e, immediatamente, pubblicare sui social network, in molti casi salta la fase d’intermediazione, operata da persone preparate ed esperte che valutano e distinguono l’immagine realmente congrua e utile per la comprensione della notizia, lontana da ogni forma di speculazione e sensazionalismo; che seguono un codice, a volte tacito, deontologico. Alcuni, ma non tutti.
Il dibattito di sempre nel mondo giornalistico, che con l’uso degli smart phone e dei social network si è esteso anche alla cittadinanza, si fa particolarmente vivo ogni qual volta accadono agli attentanti terroristici.
Il recente atto criminoso avvenuto a Nizza il 14 luglio 2016, che ha spezzato la vita a 84 persone e che a distanza di otto giorni, mentre scriviamo, 12 tra le persone ricoverate, sono ancora in prognosi riservata, ha posto il problema sul tavolo, non solo per colpa del “ citizen journalism”, ma dei mezzi d’informazione ufficiali che durante l’attentato non hanno esitato a trasmettere direttamente o a condividere attraverso il loro account Twitter o Facebook, video e immagini esplicite della tragedia in corso, senza nessun rispetto per le vittime e i loro famigliari.
La brutalità dell’informazione in tempo reale
Particolarmente brutale è stato il comportamento del canale pubblico della televisione francese France 2 che ha intervistato e mandato in onda in diretta, famigliari con accanto al cadavere della persona appena colpita dall’attentato. Il canale, subissato dalle critiche, si è affretto a scusarsi pubblicamente con un comunicato nel quale afferma che durante la notte tra il 14 e il 15 luglio nell’edizione speciale mandata in onda sul tragico avvenimento di Nizza, ha mandato in onda immagini che non sono state anteriormente verificate secondo l’abituale procedura, commettendo un errore di giudizio. Immagini, che non corrispondono al concetto d’informazione dei giornalisti dell’azienda e per le quali France 2 presenta le sue scuse.
Non da meno è stato il comportamento del sito d’informazione britannico News This Second, che attraverso il suo account Twitter ha divulgato in tempo reale video che riprendevano persone che avevano appena perso la vita. Anche il sito ha ricevuto un negativo riscontro da parte dei suoi lettori che si sono affrettati a invocare di lasciare il tempo alla polizia d’informare i familiari delle vittime, di evitare il pericolo che gli interessati sapessero della tragedia attraverso i social network, oppure scandalizzati si chiedevano come fosse possibile filmare cadaveri invece di aiutare, fino a rimarcare che diffondere tali immagini significa aiutare gli assassini.
La circolazione fulminea dei video e delle fotografie ha destato l’altrettanta fulminea reazione delle istituzioni pubbliche francesi. Il Ministero degli Inferni, così come la Polizia e la Gendarmeria, sempre attraverso i social network hanno chiesto, in nome del rispetto delle vittime e dei famigliari di non condividere immagini dell’attentato e, soprattutto hanno raccomandato di non diffondere “rumori”, ossia notizia non certe, richiamando la cittadinanza al senso di responsabilità. Nello stesso tempo il Ministro degli Interni ha informato che il Governo aveva messo a “disposizione un portale web che permetteva di segnalare i contenuti illeciti” riscontrati in Internet.
Il ruolo fondamentale dei social network. I loro provvedimenti, i loro problemi
Come vediamo l’uso dei social netwook, per ben o per male, è centrale. E assumono un ruolo fondamentale, loro malgrado, nella diffusione del messaggio del fondamentalismo islamico di Daesh. È noto come molti giovani di religione islamica o convertiti all’islamismo, hanno aderito alla jihad proclamata dal Daesh attraverso il web, che viene usato dal sedicente stato islamico con estrema abilità per propaganda e proselitismo-
I magnati del web, Facebook e Twitter, Google e Youtube sono impegnati a perpetrare un forte contrasto nei confronti dei contenuti terroristici. Nel febbraio 2016, assieme agli Studios di Hollywood avevano aderito al progetto governativo statunitense “Madison Valleywood project” elaborato per sconfiggere Daesh on line.
Sempre a febbraio Twitter aveva annunciato di aver chiuso 125.000 account, molti a sostegno del terrorismo islamico, mentre Facebook ribadiva il suo totale impegno nel contrastarlo.
In concomitanza con questi azioni, Daesh aveva pubblicato un video di minacce della durata di 25 minuti, inviato a “Mark e Jack e al loro governo
crociato” firmato “Sons Caliphate Army”, nel quale apparivano Jack Dorsey tra i fondatori di Twitter e Mark Zuckerberg fondatore di Facebook, con i volti crivellati di colpi mentre la scritta in sovrimpressione dice, fra l’altro: “Se chiudete un account ne apriremo altri 10 e presto i vostri nomi saranno eliminati… Voglia Allah e sapete che è vero”. Sempre nel video gli integralisti affermano di controllare 10.000 account, 150 gruppi Facebook e 5.000 profili Twitter.
Dopo l’attentato di Nizza, sia Facebook sia Twitter hanno annunciato che per contrastare le immagini pro guerra santa, sono all’opera nell’elaborazione di un programma in grado di bloccare ed eliminare i video con i contenuti violenti, partendo da uno già utilizzato in passato per individuare e eliminare dalle loro piattaforme gratuite i contenuti protetti dal copy-right. La procedura dovrebbe prevedere l’utilizzo di un database contenente immagini proibite già rimosse. I video a contenuto terroristico e/o violento appena pubblicati verrebbe automaticamente confrontato con il database il quale se individua analogie con il materiale che ha in archivio lo eliminerebbe istantaneamente.
La denuncia del padre di una vittima dell’attentato di Parigi
Ma i problemi per i magnati del web non terminano qui. Secondo la televisione britannica BBC, a settembre 2016 potrebbe celebrarsi il processo in California che li vede imputati di “fornire consapevolmente sostegno materiale” ai terroristi. La denuncia proviene da Reynaldo Gonzalez padre di Nohemi, unica statunitense delle 130 vittime dell’attentato avvenuto il 13 novembre 2015 a Parigi. L’accusa è di permettere ai fondamentalisti Daesh, attraverso Facebook, Twitter e Google, di fare propaganda, reclutare uomini e raccogliere fondi. Le società definiscono le accuse infondate e per la legge degli Usa i social non sono responsabili dei contenuti pubblicati sulle loro piattaforme. Ma l’accusa afferma che la colpevolezza non si basa sui contenuti pubblicati, ma per il comportamento delle reti informatiche che hanno favorito il terrorismo, nel corso degli anni.
Mentre scriviamo giunge la notizia di un attentato in corso a Monaco (Germania). La polizia tedesca ha subito chiesto di non pubblicare immagini e video dei fatti. L’esperienza di Nizza ha fatto scuola.