Clima. Durante e dopo COP25

COP25, il vertice Onu sul clima appena conclusosi a Madrid, non ha raggiunto i suoi obiettivi. Motivo in più per il movimento Fridays for Future per continuare a scioperare il venerdì e manifestare per chiedere a chi detiene il potere decisionale di mettere in atto i suggerimenti della scienza per contrastare il cambiamento climatico.

 

Per il gruppo Fridays For Future di Roma, il 20 dicembre sarà il 49° e l’ultimo presidio in piazza del 2019. Organizzata a piazza del Popolo dalle h.15,30 alla manifestazione interverranno esperti che spiegheranno i motivi della debacle del vertice, “un’occasione perduta” commenta amaro il presidente Onu Antonio Guterres. Si parlerà anche dell’impatto ambientale delle tradizioni natalizie, mentre Fulcro, cantante e attore si esibirà con i suoi brani ecologisti. “Non mancate! – scrivono le ragazze e i ragazzi del FFF Roma – abbiamo poco tempo per invertire la rotta, c’è bisogno della presenza di tutte e tutti voi”.

Cambiare la rotta significa la totale e universale conversione energetica, il passaggio dai combustibili fossili ai sistemi alternativi e sostenibili. Che poi sarebbe l’obiettivo n. 7 dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030 che, infatti, in questi giorni campeggia sul sito dell’Onu. “Energia pulita e accessibile a tutti” recita il 7° gol, un traguardo da raggiungere tra 10 anni.  L’Agenda è stata compilata nel settembre 2015, sottoscritta dai Paesi Onu, che sono quasi 200, con lo scopo di raggiungere nell’arco dei successivi 15 anni maggiore prosperità per le persone e per il pianeta.

 

Da allora sono trascorsi 5 anni in vano, almeno per quanto riguarda l’inquinamento.  Le emissioni globali di gas serra sono aumentate del 4%, come dimostrato dagli studi scientifici presentati a Madrid, quando si dovrebbe tagliarle del 7%  ogni anno nei prossimi 10, per non raggiungere il punto di non ritorno.  Nonostante ciò COP25, il vertice più lungo di sempre (42 ore di proroga della chiusura), ha visto soltanto 86 Paesi, tra i 196 partecipanti, impegnarsi, formalmente. a tagliare le emissioni.  I Paesi più inquinanti hanno frenato ogni accordo, impuntandosi sull’articolo 6 dell’Accordo di Parigi a proposito del carbon market e ancora una volta sul loss and damage.

La lista dei “cattivi” e i punti che hanno fermato la negoziazione

I Paesi che maggiormente hanno ostacolato l’accordo globale sono stati: Brasile, Arabia Saudita, Russia, India, Cina,  Sudafrica e l’ Australia.

Sì, l’Australia che in questi giorni è in piena crisi climatica con una temperatura media di 41,9 gradi e la continua allerta per gli incendi, la cui nube tossica ha investito la capitale, Sydney, che registra un tasso d’inquinamento superiore 11 volte ai massimi livelli di allerta e gli abitanti non possono uscire da casa senza la mascherina anti-smog.

Una nota a parte meritano gli Stati Uniti d’America, che pur essendosi ritirati dagli Accordi di Parigi (per il regolamento ne usciranno effettivamente il 4 novembre 2020), hanno partecipato al vertice di Madrid, ri-dimostrandosi nemici dei provvedimenti per tagliare le emissioni.

Carbon market – COP25 avrebbe dovuto stabilire i meccanismi di calcolo dei crediti. Stiamo parlando del cosiddetto carbon market (articolo 6 degli Accordi di Parigi) che prevede che un Paese che emette troppi gas serra (perché consuma ancora troppo carbone) possa acquisire crediti da un Paese che, al contrario, si mantiene al di sotto dei limiti previsti. L’intesa non è stata trovata nonostante la proroga delle 42 ore;

Loss and damage – Meccanismo di Varsavia, detto loss and damage: indica il sistema di compensazione e il finanziamento per i Paesi già vittime del riscaldamento globale. La COP25 si era proposta di convincere i Paesi più ricchi a stanziare 50 miliardi di dollari per riparare i danni sui territori colpiti. Anche per questo punto non si sono verificati progressi indicativi. E qui emerge il paradosso delle mancate decisioni che registriamo puntualmente dal 2016: il riscaldamento globale produce danni che una riconversione graduale all’energia pulita avrebbe potuto se non evitare, senz’altro mitigare. Emerge in tutta la sua evidenza l’ossimoro del si spende di più per spendere meno.

I Paesi buoni e i (piccoli) progressi

A fronte della mancanza di un accordo tra tutti gli Stati membri, troviamo gli 84 Paesi che hanno sottoscritto una dichiarazione d’intenti, con la quale s’impegnano entro il 2020 a presentare nuovi piani nazionali vincolanti volti al taglio delle emissioni. Tra gli 84 Paesi figura l’Unione Europea e Stati (piccoli) insulari. Restano fuori però gli Usa, la Cina, la Russia e l’India, che insieme emettono il 55% dei gas serra a livello globale.

Gender Action Plan Accettato dai Paesi membri l’atto che promuove i diritti e la partecipazione delle donne nella sfera dell’operato pro ambiente a livello internazionale.

E adesso?

Tutto rimandato alla COP26 che si terrà a Glasgow nel novembre 2020. Ma prima, a settembre, ci sarà l’incontro Unione Europea – Cina a Lipsia (Germania).

Se l’Unione per allora avrà formalizzato il suo Green New Deal che prevede emissioni zero entro il 2050, potrebbe ottenere dai cinesi un contributo in tal senso e rendere COP26, finalmente, risolutiva.

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