Donne che vestono le donne. Moda, costume e diritti
Women dressing women: le donne che hanno vestito – e vestono – le donne ce lo mostrano 80 capi di 70 stiliste esposti, alcuni per la prima volta, al Met (Metropolitan Museum of Art) di New York.
Lo studio dell’eredità artistica
Per celebrare “l’eredità artistica delle stiliste” spiega il direttore del Met, Max Hollein, è stato esplorata la creatività della collezione permanente del museo (lascito delle sorelle Irene e Alice Lewisohn negli anni Trenta), composta da abiti che attraversano il Novecento fino ai giorni nostri e mettendo in evidenza designer celebri, dimenticate e nuove. Un certosino lavoro di analisi sviluppato su più piani che ricostruiscono 350 anni di storia e, che nella mostra, diventano le 4 seguenti sezioni: anonimato, visibilità, agenzia e assenza/omissione.
Oltre alla famosa e celebrata affermazione femminile avviata da Elsa Schiapparelli e Coco Chanel di ormai un secolo fa, Hollein, ampliando lo sguardo, descrive il campo della moda come un luogo dove “alle donne è stato permesso lavorare e guadagnarsi da vivere. In questo senso, la moda è stata un luogo di emancipazione femminile nella produzione così come nel consumo”.
Dal XII al XX secolo. Come la Rivoluzione francese portò all’ haute couture,
Se in Europa fino al 1675, effettivamente, i sarti avevano dominato il campo dell’abbigliamento, quell’anno vide costituirsi la prima corporazione di sarte e la situazione cambiò
Certamente seguirono secoli di lavoro anonimo, ma non per disparità di genere, piuttosto per le diverse modalità del lavoro che riguardava tanto le sarte quanto i sarti che li volevano lavoravano direttamente con i clienti locali senza stabilire regole.
I creatori non firmavano i propri capi, salvo nel caso di Rose (Bertin 1747 – 1813), sarta e modista di Maria Antonietta, la regina francese che la Rivoluzione destinò al patibolo.
Ma fu proprio la Rivoluzione francese, abolendo regole e corporazioni, a consentire ai sarti e sarte di esprimere liberamente la propria creatività fino a giungere all’assegnazione della paternità alle proprie creazioni.
Avvenne circa un secolo più tardi con l’industrializzazione del tessile e del confezionato e la sua ampia distribuzione nei neonati grandi magazzini.
Era l’alba del prêt-à-porter, abiti finiti in taglie standard prodotti in serie, pronti per essere indossati, a costi inferiori. Al contempo il capo confezionato su misura del cliente dal singolo sarto, ossia la tradizionale lavorazione artigianale si classificava come haute couture, impersonificata da Charles Frederick Worth (1825 – 1895), inglese trapiantato a Parigi, il primo che etichettò i suoi capi realizzati secondo le fogge da lui create.
Dopo Worth entrano nella storia le grandi, già citate, la francese Chanel (1883 – 1971) e l’italiana Schiaparelli (1890 – 1973).
E ancora in Francia, durante il periodo della guerra, riporta il Met, le donne stiliste divennero più numerose dei loro colleghi: commesse o responsabili di laboratorio riuscirono a conquistare posizioni di leadership.
Dalle ceneri ai diritti e alla riabilitazione
Negli Stati Uniti, la produzione di abiti fu sempre vista come un “lavoro di donne” ma nell’anonimato e nel male e nel bene.
Come non citare i gravi incendi avvenuti a New York nelle fabbriche di camice rispettivamente Cotton nel 1908 e Triangle nel marzo 1911, dove morirono centinaia di operaie, molte italiane ed ebree immigrate.
Avvenimenti che originarono nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro, incrementando le fila del sindacato International Ladies’ Garment, Workers’ Union e originarono l’Istituzione della Giornata internazionale della donna, ogni 8 marzo.
Un simile tragico evento accadde anche in Italia nel 1918 a Castellazzo di Bollate (Milano), quando un reparto della fabbrica Sutter&Thévenot che produceva – perdonate la digressione – munizioni e non camicette -, saltò in aria e le vittime furono 59 quasi tutte donne.
La situazione del lavoro femminile nella moda negli USA cambiò radicalmente tanto che i primi stilisti ad imporsi erano donne attive nel settore del prêt-à-porter. Tra queste il Met ricorda Claire McCardell e Bonnie Cashin, come le apripista verso l’autonomia professionale e, al contempo, creatrici di elementi di moda che resero il modo di vestire più facile e più libero.
E Betsey Johnson, Vivienne Westwood e Sonia Rykiel (i cui capi sono presenti nell’esposizione) che, invece, si distinsero soprattutto per aver sviluppato la cultura della boutique.
Le assenze. All’afroamericana Ann Lowe, l’anonima conosciutissima, la fama che merita
L’ultima sezione – le assenze – è “una sorta di epilogo che indica come ci si debba adoperare ancora nella ricerca, revisione e rivalutazione delle personalità che hanno fatto la storia”.
Un esempio clamoroso di assente, intesa come di figura lasciata fuori dalla storia della moda nonostante il suo talento e senz’altro quello di Ann Lowe (1898 – 1981), la designer afroamericana, figlia d’arte, che rimasta orfana iniziò a lavorare a 16 anni, durante il periodo della segregazione, nel profondo Alabama.
Anonima la Lowe al punto da restare tale nonostante disegnasse e cucisse abiti couture per le élites: debuttanti, ereditiere, attrici; nonostante nel 1953 realizzasse l’abito nuziale con le spalle scoperte e arricciato per Jacqueline Kennedy.
Fu uno degli abiti più imitati della storia, ma Ann Lowe all’epoca non ottenne alcun merito. Emblematica figura dalla bravura comprovata e conclamta ma sottaciuta.
Omessa, come tante altre, dalla narrazione tradizionale, la fama di Ann Lowe è, infatti, recente. Nell’esposizione Women dressing women c’è un suo abito color crema lungo e decorato con i suoi caratteristici garofani rosa ricamati lungo la gonna; uno dei tanti motivi floreali che la contraddistinguevano, presente anche nell’abito di Jacqueline.
Un tributo più che dovuto, del Met ad Ann Lowe, replicato – per una creatrice che non ha mai replicato un modello nel corso della sua carriera – con la personale Ann Lowe – American Couturier, presso il Museo di Winterthur di Delaware.
La mostra Women dressing women erano state concepita dal Costume Institute’s del Met per il suo Anna Wintour Costume Center per il 2020, in concomitanza con il centenario del suffragio femminile statunitense.
Il ritardo del suo debutto, avvenuto lo scorso 7 dicembre, è stato dovuto alla pandemia. Ma per fare ordine nella storia e riconosce i talenti negati o sottovalutati e, malgrado ci la loro influenza nei posteri, non è mai troppo tardi.
Mostre:
Women dressing women, presso il Metropolitan Museum di New York, fino al 3 marzo 2024, inclusa nell’ingresso al museo;
Ann Lowe – American Couturier, personale presso il Museo di Winterthur di Delaware, fino al 7 gennaio 2024.
Immagini: 1) New York, una della sale del Metropolitan Museum of Art dedicate alla mostra ‘Women dressing women’; 2) modello di Charles Frederick Worth, primo sarto ad etichettare i suoi capi realizzati secondo le fogge da lui create, ‘padre’ dell’ haute couture, come la consideriamo ancora oggi; 3-4) Castellazzo di Bollate (Milano), fabbrica Sutter&Théveno, l’esplosione di un reparto causò 59 vittime, quasi tutte donne; 4) Ann Lowe, talentuosissima stilista afroamericana, famosa tra le élites statunitensi fino a realizzare l’abito nuziale di Jacqueline Kennedy (immagine 4), fra i più imitati nella storia. Ma il suo nome rimase sconosciuto per lungo tempo. La celebra la mostra del Met (immagine 5) e la personale al Museo di Winterthur di Delaware (immagini 6-8), con abiti, sempre unici, di sua produzione