La luna e i falò della pillola abortiva
A partire dalla prossima estate, la Regione Lazio darà l’avvio ad una sperimentazione della durata di 18 mesi che permetterà di procedere all’aborto farmacologico nei consultori familiari, similmente al resto d’Europa. È la prima volta che in Italia si assiste ad una deospedalizzazione dell’interruzione di gravidanza chimicamente indotta.
La Ru486 è la pillola abortiva, un medicinale giunto in Italia nel 2009, dopo aver ottenuto l’autorizzazione dell’Agenzia italiana per il farmaco, lasciando allo Stato e alle Regioni le disposizioni per il corretto utilizzo clinico.
Pertanto, nel pieno rispetto della legge 194, (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) le donne che intendono interrompere la gestazione entro la settima settimana, possono ricorrere all’aborto chimico ingerendo la Ru486 che interviene sul progesteone, l’ ormone preposto al mantenimento della gravidanza.
In pratica, alla donna vengono somministrati due farmaci a distanza di due giorni: il mifepristone, nome tecnico della Ru486, che prepara il terreno e la prostaglandina che, assunta dopo, provoca l’espulsione del materiale abortivo attraverso il sanguinamento e contrazioni.
Quindi la Ru486 non ha nulla a che fare con la pillola del giorno dopo, non è un contraccettivo, bensì un farmaco abortivo che inibisce lo sviluppo dell’embrione e ne favorisce il distacco. La letteratura descrive una serie di effetti collaterali: crampi di varia intensità che via via possono aumentare in prossimità dell’espulsione. Ancora nausea, vomito e diarrea. Infine, la quantità e la durata del flusso del sangue, possono variare con perdite ematiche che persistono per almeno una settimana.
Dunque, tale binomio farmacologico, incluso nell’elenco dei farmaci essenziali per la salute riproduttiva dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2006, rappresenta oggi il metodo più diffuso per favorire l’aborto medico.
Accordi e disaccordi
La possibilità di distribuire la Ru486 nei consultori familiari di cui si fa capofila la giunta Zingaretti apre inevitabili dibattiti. Una rivoluzione: l’aborto chimico diviene un intervento ambulatoriale e , benché si tratti di una pratica comune in altri paesi europei, le controversie si accendono. La luna e i falò sotto l’ombra del Vaticano e dei conservatorismi vigenti.
Una parte dell’opinione pubblica sposa l’idea che l’aborto nei consultori possa garantire alle donne un ambiente meno gravoso, oltre che un’assistenza ricevuta su più fronti. Per altri versanti invece lo sconcerto la fa da padrone, declamando l’illegittimità della sperimentazione che metterebbe a rischio la salute di chi accetta una tale pratica fuori dalle corsie ospedaliere.
Nodo centrale della questione sarebbe il fatto che la somministrazione dei farmaci non permette di prevedere con esattezza il momento dell’espulsione; per cui sarebbe meno rischioso se l’intervento farmacologico fosse fatto all’interno di un ospedale o di una clinica. In effetti la legge 194, nell’art. 8, prevede che l’aborto avvenga comunque in regime di ricovero a tutela della salute della paziente. .
Inoltre, la possibilità di abortire farmacologicamente potrebbe favorire facili distorsioni ideologiche che trasformerebbero una pratica abortiva in una forma di contraccezione occulta.
Di certo, parlare di interventi abortivi apre questioni assai delicate: la difesa del feto e della vita, parimenti la salvaguardia della donna che, di fronte ad una decisione drammatica quale l’interruzione della gravidanza, reclama una adeguata assistenza e di un valido sostegno. Si tratta di un reale o di un finto tentativo di umanizzare una pratica complessa e controversa?
“Alleviare la pena” favorisce una deresponsabilizzazione? Forse al di là di ogni frattura politica e morale, bisognerebbe migliorare l’informazione e la prevenzione, e chissà magari rendere fruibile l’idea che la libertà di scelta sia talvolta fonte di dolore, un ineliminabile sofferenza.