Ca’ Vendramin Calergi: tra Casinò e Riccardo Wagner

sale da giocoE la pallina girava velocemente su quel piatto tondo, io la seguivo, forse affascinata, con lo sguardo.

Quando cominciava a rallentare saltando su e giù da una casella all’altra, faceva un rumore sempre eguale. Alle mie spalle, decine di braccia si tendevano con prepotenza e puntavano fino all’ultimo istante quei dischetti colorati, su questo o quel numero. La voce del croupier avvertiva che il gioco era terminato, “rien ne va plus, le jeu sont fait”.

Era questione di attimi, forse uno e pochi altri erano i vincitori di qualcosa, subito una bacchetta simile ad un rastrello, raccoglieva le giocate che sparivano immediatamente in una buca, e si ripartiva per la centesima volta ad osservare quella pallina che riprendeva a girare.

Per fortuna oggi il fumo non avvolge più quelle stanze, ma fino a qualche anno fa, pochi minuti dopo che eri entrata, un sottile mal di testa ti avvertiva di quell’aria viziata ed assolutamente irrespirabile ed io non vedevo l’ora di andare via.

Quel gioco assomigliava ad una malattia, persone di ogni età e condizione, erano ammagliate dal tavolo verde. Rouge, noir, impaire, passe, manque, paire, erano parole che entravano ed uscivano dal cervello dei giocatori. Il tintinnio delle fiches tra le loro dita era simile al suono dei soldi ma proprio questi ultimi sembrava non avessero grande importanza.

Chi vi partecipava per la prima volta, poteva rimanere affascinato, ma poi, visto che quel giocare anche a me era apparso non avere alcuna logica od abilità nell’eseguirlo, decisi che il mio tempo da dedicare ad esso era concluso.

Allontanarsi dal casinò, ridiscendere le scale, attraversare l’ampio atrio che mi aveva condotto a quelle stanze era quasi una liberazione.

Wagner al pianoforteL’azzardo della musica: Wagner a Venezia

A piano terra, lungo i muri che delimitavano la facciata del palazzo Vendramin Calergi, scorreva l’acqua, silente e cupa, solo un lieve rumore di pagaia sembrava sfiorare quelle mura. Attratta da ciò percorsi pochi metri, ma prima di raggiungere l’arco ove avrei visto il Canal Grande, una targa attirò la mia attenzione. “Museo Riccardo Wagner”.

Perché avevo perso il mio tempo in qualcosa che non amavo quando invece potevo scoprire che la storia delle musica aveva albergato proprio lì, in quella Venezia senza tempo, in quella città unica, bellissima ed anche un poco triste?

Partiamo dal 1813, anno d’oro per la grande musica, perché nacquero in quell’anno due grandi personaggi: Riccardo Wagner e Giuseppe Verdi, differenti tra loro in tutto, dalle origini, al carattere e la personalità, ma geni unici ed indiscutibili.

L’autore tedesco, scelse Venezia per sua dimora a più riprese, ed infatti scriveva al suocero Liszt che quella città era per lui simile ad un tranquillante perché lo faceva sentire riposato e vi si rifugiava quando aveva concluso le sue opere più impegnative. E così aveva fatto nel settembre del 1882, quando, terminata la partitura dell’opera Parsifal, prese alloggio nel mezzanino di palazzo Vendramin.

Era molto stanco, il suo fisico aveva avuto alcuni scossoni, brevi crisi cardiache avevano minato la sua resistenza ed assieme alla giovane moglie Cosima, figlia del musicista Franz Liszt, cercò in Venezia quel senso di pace e riposo necessario affinché le sue forze fisiche e mentali se ne giovassero. Era l’ultimo tentativo di prolungare la sua vita che si spense il 13 febbraio del 1883.

La generazione di allora, che non aveva capito la grandezza di D’Annunzio, detestava Wagner perché lo riteneva un talento istrionico e perché lo si voleva così divinizzare oltre i suoi meriti.

Molto dipendeva dal carattere di questo teutonico autore, e va da sé che, chi ne ha uno forte, di solito si dice che ha proprio un …brutto carattere, e questo è stato il limite che ha permeato tutta la sua vita: la vanità, l’incoscienza, l’egoismo e la presunzione che tutto gli fosse dovuto.

Ma, quanto è stato grande! Le sue opere sono da considerare architettura in musica ove canto, poesia, recitazione e psicologia si fondono, e sono simili ad azioni e gesti che pretendono un’attenzione quasi religiosa. La sua musica sorge dal buio e riesce a “prendere” e “cogliere” l’immaginazione dello spettatore.

Parsifal al Teatro Regio di Torino - gennaio/febbraio 2011 Fto di Ramella e Giannese

Parsifal al Teatro Regio di Torino – gennaio/febbraio 2011
Fto di Ramella e Giannese

Wagner visse a detta dei personaggi di allora 3 volte. Quando da giovane scrisse opere di fantasia e di favola: “Le fate”, “Il divieto d’amore” e “Rienzi”. Quando passò da quel periodo a quello di transizione e a quello di autentica forza musicale con la composizione della tetralogia: “L’anello del Nibelungo, che è composto dai 4 drammi: “L’oro del Reno”, “La Valchiria”, “Sigfrido”, “Il crespuscolo degli Dei”, infine il “Tristano e Isotta”, “I maestri cantori di Norimberga”, e per finire il “Parsifal”.

Un percorso di note fatto di mitologia e nostalgia per concludersi e poi ritrovarsi sulla strada della felicità e della redenzione.

La sua tetralogia terminerà però con la fine del mondo ed esprime il fallimento della sua idea della vita e forse è questa l’immagine che ci resta ma che non è vera fino in fondo.

Il mio Wagner

Chiudo gli occhi e mi rivedo a passeggiare in quelle stanze, a respirare l’odore di vecchio legno, a soffermarmi davanti ai due pianoforti, ad osservare il camino in marmo, a scorgere negli armadi oggetti e lettere che ricordano il soggiorno di Wagner e vedere foto ove il severo volto del musicista contrasta con i tratti più dolci della sua compagna ma principalmente di voler capire chi era infetti Riccardo Wagner.

E così appare la figura di D’Annunzio che lo inserirà, come un piccolo protagonista, nelle pagine del “Fuoco”, e che lo descrive in una scena ove il maestro appoggiato al parapetto del battello che rientra a S. Marco, è rappresentato in un immagine talmente bella che pone in evidenza la grandezza e la fragilità del musicista, dedicandogli queste parole:”quel malore improvviso che lo fa schiantare, con il gesto di chi affoga nel buio, sopra le schiume della laguna, mentre il rumore dei motori incontra già il vasto gemito della città percossa, non meno lacerante dei temi cromatici creati per Amfortas, il re ferito del Parsifal.”

Venezia adesso è ancora più triste, il freddo scende inesorabile, l’umidità mi entra nelle ossa. Giù il motoscafo lancia un suono, è pronto a riportami sulla terra ferma. Prima di volgere le spalle, con la coda dell’occhio scorgo una lapide posta sul fronte del palazzo e l’autore della scritta è ancora D’Annunzio. “In questo palagio, l’ultimo spiro di Wagner, odono le anime, come la marea che lambe i marmi, dall’apparenza aerea come di una nuvola effigiata che passasse sull’acqua.….”

Adesso anche per me il gioco è finito: rien ne va plus.

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