La sfida della pace per Antonio Guterres

La sfida della pace per Antonio Guterres

Il prossimo Segretario generale delle Nazioni Unite, il portoghese Antonio Guterres è certamente persona politicamente avvertita, anzi molto avvertita se è riuscito a governare il suo paese quale Premier per 7 anni e per essere stato adesso scelto tra parecchi candidati al vertice dell’ONU.

Ha fama di essere anche persona dotata di particolare sensibilità e umanità e non solo per il suo passato socialista e l’aver diretto per 10 anni, con successo, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati dove è approdato ora il nostro Filippo Grandi.

Le sue prime dichiarazioni – assumerà l’incarico 1° gennaio 2017 – sono suonate conferma di queste sue doti con particolare riferimento a due punti sostanziali: da un lato quando ha evitato di parlare della necessità di riforma dell’ormai obsoleto Consiglio di sicurezza e ha voluto ricordare, garbatamente, ma con decisione, come non stia nei poteri del Segretario generale dell’ONU imporre soluzioni o percorsi finalizzati a conseguirle; dall’altro sottolineando la sua determinazione a impegnarsi a fondo nel suo ruolo di suggeritore di soluzioni e di percorsi, di persuasore morale e di sollecitatore delle coscienze dei veri detentori del potere, cioè dei capi di stato e di governo, sulle loro responsabilità rispetto al grande scopo della pace, il primo e massimo fine dell’Organizzazione che al servizio della pace prevede anche il ricorso alla forza.

Già, la pace, una parola che sembra divenuta quasi estranea alla gran parte del mondo, frammentato com’è in tante piccole e grandi guerre che nessuno o quasi sembra in grado di fermare. Una parola che sembra toccare il limite stesso delle temerarietà politica anche sulla bocca di Papa Francesco e che Guterres ha invece voluto richiamare con convinzione, con un afflato che l’uscente Ban Ki Moon sembra aver perso strada facendo nella sua forse troppo lunga missione.

Nell’ascoltarlo e nel leggere le interviste rilasciate con un trasporto umanitario davvero encomiabile a proposito dei conflitti in corso nel mondo e, in particolare alla guerra civile in Siria e in Yemen, mi sono chiesto in particolare quale posto stia occupando nella mente e nel cuore dei protagonisti di queste guerre il rapporto tra etica, valori della vita e real politik.

E, di conseguenza, quale spazio, quale influenza possa avere, oggi, anche il più autorevole tentativo di persuasione morale a favore della scelta della pace e/o di richiamo alle loro responsabilità, dirette o/e indirette, di carattere etico-politiche per le devastanti conseguenze umane e materiali delle guerre in corso. Le immagini e i numeri di Aleppo ne sono un esempio eloquente.

In questo contesto, ma all’inverso, mi sono anche domandato se la svolta che parrebbe volersi imprimere alla guerra contro il terrorismo, specialmente in Iraq, attorno a Mosul, doveva farsi attendere da così tanto tempo e a valle di una scia di sangue tanto lunga e dolorosa, forse evitabile almeno in parte se affrontata con tempestività. E se non vi si possano e debbano individuare precise responsabilità politiche e politico-militari.

humanity-and-peaceLa risposta che mi sono dato da persona qualunque, da cittadino e da diplomatico di lungo corso, ora in pensione, che pure ha fatto della real politik una fondamentale barra di orientamento professionale è stata sconfortante e sconfortata.

Mi è tornato alla mente Tony Blair, l’ex leader britannico che senza avvertire, evidentemente, il peso delle disastrose conseguenze guerra condotta con Bush per abbattere Saddam Hussein sulla base di un’incredibile somma di falsità, si è dato a una lucrosa attività di conferenziere e ora parrebbe addirittura intenzionato a tornare alla politica attiva.

Mi si è imposto alla mente quello spregiudicato autocrate che risponde al nome di Putin; il modo con cui, giusto per fare un esempio, è intervenuto a sostegno del criminale regime di Damasco di Bashar al Assad dal 2011 in avanti e come a partire dal  settembre 2015 abbia deciso di associare la sua diretta responsabilità militare all’impressionante sequenza di morti e di distruzioni che ne è seguita, riuscendo con ciò a imporre di fatto la sua agenda, regionale, e non solo. Inutile interrogarsi, mi sono detto, sulla sensibilità umanitaria di questo novello Zar, pronto a sacrificare molto, anche del già precario benessere della sua popolazione, nel perseguimento dei suoi obiettivi strategici e di prestigio.

Ho pensato naturalmente ad Obama che nell’apprestarsi alla dissolvenza presidenziale forse rimpiange di non aver aiutato davvero e con la necessaria tempestività gli oppositori di Bashar al Assad quando ancora chiedevano riforme a mani nude ricevendo piombo; di non essere poi riuscito, lui, il Presidente degli Stati Uniti, il paese più forte del mondo, a contrastare davvero la logica per la quale tutte o quasi tutte le potenze regionali e internazionali hanno finito per accettare che Bashar restasse per un tempo imprecisato al fine di salvaguardare l’unico spicchio di governo governante della Siria.

Forse Obama rimpiange anche di aver sottovalutato i chiarissimi segnali che dal 2012/13 venivano da quello che sarebbe diventato il sedicente Stato islamico, di aver tardivamente lanciato una maxi coalizione contro l’ISIS rivelatasi tanto roboante mediaticamente quanto povera di risultati decisivi dopo oltre due anni di attacchi e di averla rilanciata adesso in compagnia di problematici alleati .Non sarà più alla Casa bianca quando l’incrocio delle agende regionali e internazionale che si sta materializzando su Mosul contro l’ISIS, incrocio dal quale Putin si tiene per ora estraneo, produrrà i suoi effetti. Ma chissà che a quel momento vorrà esternare le sue più profonde e vere riflessioni in proposito.

Ho pensato anche allo spregiudicato Erdogan, al virulento Khamenei, all’ossessionata (da Teheran) Riyadh.

E mi sono detto che al nuovo Segretario generale delle Nazioni Unite si apre un orizzonte in cui la parola pace avrà un valore quasi chimerico e il suo compito quasi impossibile.

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