Corrida no, ma anche si

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La Corte Costituzionale spagnola ha annullato il divieto della corrida in Catalogna, votato dal Parlamento di Barcellona nel luglio del 2010, dopo un’iniziativa popolare animalista firmata da 180mila cittadini, entrato in vigore dal 2012 e soltanto per l’arena di Barcellona.

La decisione della Corte, frutto di 8 voti favorevoli e 3 contrari, deriva dal fatto che la corrida è considerata un bene culturale d’interesse nazionale, com’è stato dichiarata sotto il Governo Rajoy, pertanto soltanto il parlamento di Madrid può decidere se abolirla o no.

La Corte ha riconfermato e riconosciuto ai parlamenti regionali la facoltà di regolamentare gli spettacoli taurini e di proteggere gli animali, ma non quella di abolirli, in quanto, appunto “fiesta nacional”.

L’interdizione provenendo dal Parlamento autonomo della Catalogna, che cerca da tempo di ottenere l’indipendenza dalla Spagna, più che una misura in difesa dei tori sulla linea degli animalisti, è stata interpretata come una nuova sfida dei catalanisti nei confronti del potere centrale di Madrid.

Nonostante il pronunciamento della Corte spagnola, il sindaco di Barcellona Ada Coalu (nella foto in alto a sinistra), ha dichiarato che la Catalogna continuerà a rispettare le normative che vietano il maltrattamento degli animali.

Il dibattito, a volte lo scontro, tra le associazioni animaliste e i fautori della tauromachia è di vecchia data. I primi sostengono che la corrida è uno spettacolo di tortura legalizzata, dove i tori vengono sacrificati senza motivo. I secondi controbattono affermando che i tori allevati per la corrida, godono di un’esistenza più lunga e felice rispetto a quelli destinati alla produzione della carne e del latte e che la stessa corrida contribuisce all’ecosistema spagnolo creando ricchezza e proteggendo l’ambiente.

Una diatriba antica come la storia della stessa corrida

corrida-a-cavalloLe origini degli spettacoli di tauromachia risalgono ai tempi degli antichi greci ed erano praticati anche dai Romani. In Italia si sono protratti sotto lo Stato Pontificio nello Sferisterio di Macerata e a Venezia.

È documentato che nel medioevo i nobili spagnoli, accompagnati dai notabili musulmani, amavano rincorrere i tori in sella al proprio cavallo e, una volta raggiunti, trafiggerli con la lancia.

Le precise testimonianze risalenti al 1040 ci raccontano di Rodrigo Diaz de Vivar, il famoso Cid Campeador, che in un’occasione uccise diversi tori e che da allora questo “sport” è stato presente nel corso delle feste organizzate per celebrare avvenimenti importati. Ma la diatriba pro o contro era già iniziata. Periodo in cui la cultura e le abitudini ispaniche erano particolarmente influenzate dagli arabi che dominarono la Spagna all’incirca per 600 anni, i quali consideravano il “lidiar los toros” una manifestazione di vigore fisico e fascino cavalleresco.

Il primo divieto storico nei confronti della tauromachia e dei maltrattamenti degli animali, risale alla costituzione apostolica De salute, pubblicata da Papa Pio V il 1° novembre del 1567, ma non gli venne mostrata molta attenzione.

La prima scuola di tauromachia venne fondata a Siviglia nel 1670, ma fu riconosciuta ufficialmente oltre un secolo, nel 1830, con il decreto regio di Ferdinando VII di Borbone.  Perché durante il 700, a fasi alterne la corrida era stata proibita in quanto troppo cruenta (Filippo V di Borbone) o concessa (Ferdinando VI) per compiacere i sudditi.

Il favore o lo sfavore dipendeva, quindi dal giudizio o della convenienza politica del re di turno.  Ma è proprio nel corso del XVIII secolo, quando i nobili avevano  abbandonato la pratica taurina, che si era andata diffondendo tra il popolo.

Quest’ultimo, praticandola non più a cavallo, per raggiungere e gareggiare con la forza dei tori aveva introdotto dei nuovi elementi come i picadores con il compito di fiaccare l’animale prima dell’entrata in scena del torero deputato a fronteggiare il toro e a ucciderlo, con un solo e preciso colpo di spada per finirlo senza farlo soffrire.

corrida-tradizionaleA Juan Romero, sempre nel XVIII secolo, si deve la creazione delle squadre di toreri, dando vita allo spettacolo molto simile a quello attuale.

A livello governativo le corride continuarono a essere proibite, ricordiamo il decreto regio (Real Cedula) del re Carlo IV nel 1805.

Divieto tuttavia che sembrò dare maggior vigore a quella, che a tutti gli effetti, era diventata una diffusa e radicata tradizione popolare, che si arrestò  nel periodo dell’invasione napoleonica, ma che riprese con il ritorno al trono dei Borbone.

Infatti, Ferdinando VII di Borbone, se in un primo momento aveva mantenuto il divieto, successivamente cambiò idea e addirittura cerco di elevarla, come abbiamo già visto, riconoscendo ufficialmente la scuola di tauromachia.

E da allora, siamo nella prima metà del secolo XIX, la “corrida de toros” non ha subito sostanziosi cambiamenti.

Oltre che in Spagna, dove in particolari occasioni almeno fino agli anni 70 del Novecento si organizzano anche quelle a cavallo (el Rojoneo), le corride si praticano ancora in Portogallo, nel sud della Francia e in alcuni Paesi dell’America Latina.

Nella penisola iberica le corride si svolgono solitamente nel pomeriggio delle domeniche e dei giorni festivi, dalla primavera alla fine dell’estate e mai d’inverno, quando i toreri, per continuare a lavorare, si trasferiscono in Sud America.

Chi volesse immergersi nella narrazione della tauromachia  nella lingua di Cervantes, vi consigliamo il suggestivo saggio di uno dei massimi poeti e scrittori dell’Ottocento letterario spagnolo: Corrida de toros di Mariano José de Larra.

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