I Rohingya. Un genocidio oltre il Mediterraneo
Secondo i rapporti delle Nazioni Unite una delle minoranze etniche più perseguitate al mondo, sono i Rohingya di religione islamica , residenti nello Stato della Birmania (o Myanmar), Rakhine (ex Arakan), dal IX al X secolo circa. Per questa lunga permanenza storica vengono considerati indigeni dello stato di Rakhine. Ma c’è chi mette in discussione la loro origine e li considera originari del Bangladesh, spostati in Myanmar, durante la colonizzazione britannica, quindi nella seconda metà del XIX secolo.
Quel che è certo è che da quando la Birmania ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito, nel 1948, i Rohingya, sono stati sempre mal tollerati perché islamici, in un paese, la cui popolazione è formata prevalentemente dall’etnia Bamar di religione buddista, oltre alle minoranze etniche che costituiscono circa il 30% degli abitanti.
La storia della cittadinanza dei Rohingya è, in realtà, strettamente legata alla storia politica della Birmania e ai suoi umori. Classificati come indigeni, con tutti i diritti, dal primo governo democratico della Birmania indipendente, quando nel 1962 subentrò con un colpo di stato, il governo militare, i Rohingya vennero rinnegati come cittadini birmani; classificati come immigrati dal Bangladesh, nel 1982 le venne sottratta la nazionalità e divennero apolidi.
Da allora i conflitti interni tra il governo centrale e la minoranza etnica non sono mai cessati.
Dal 2010 il governo militare ha iniziato un processo di cambiamento politico, ridando nello stesso anno la libertà ai prigionieri politici, concedendo le elezioni, nel 2012 parziali e nel 2015 generali.
E. nonostante tra gli oppositori al regime liberati nel 2010, figura anche Aung San Suu Kyi, paladina dei diritti umani, premio Nobel per la Pace 1991, ritirato da lei stessa a Oslo nel giugno del 2012, leader della Lega Nazionale per la Democrazia da lei stessa fondato nel 1988, partito che nelle elezioni generali del 2015 ha ottenuto la maggioranza dei seggi, la discriminazione religiosa e razziale verso i Rohingya, non è cambiata e ha raggiunto l’ acme nel 2012.
Da allora nella capitale dello Stato di Rakhine, Sittwe, sono nati i campi profughi, nei quali i Rohingya, che non riescono a fuggire, sono costretti a vivere. In una popolazione, secondo l’Onu di 800.000 di Rohingya, circa dai 100.000 ai 150.000, sono reclusi nei campi profughi.
Dal 2012 l’escalation di violenze e l’esodo anche femminile verso la Malesia
L’escalation delle violenze del 2012 ha incrementato la fuga di questa etnia dalla Birmania verso la Malesia, paese a prevalenza islamica e che nonostante non abbia siglato la Statuto dei rifugiati del 1951 né i successivi protocolli del 1967, accoglie un gran numero di rifugiati provenienti dall’Asia, Africa e Medio Oriente, che si concentra maggiormente nella sua capitale, Kuala Lumpur.
E agli uomini che avevano iniziato a lasciare la Birmania per mare affidandosi, a caro prezzo umano ed economico, alle barche dei trafficanti, già da alcuni anni, si sono unite le donne. Donne e bambine dell’etnia Rohingya che fuggono dalle violenze sessuali, dal rischio di essere sequestrate o uccise, pericoli che corrono costantemente nel loro paese di origine, la Birmania.
Secondo l’organizzazione non governativa Arakan Project, che si occupa delle persecuzioni dei rohingya del Miramar, le donne e i bambini che scappano per mare sono tra il 5% e il 15% dei profughi.
Durante la fuga, spesso sono trattenute nei campi dei trafficanti, sottoposte ad abusi e sfruttamento sessuale, a volte non costrette, ma ingannate dalle false promesse dei trafficanti. Fuggono per scappare dalla violenza, ma non hanno prospettive. Come racconta Tasmida, rappresentante del collettivo femminile della “Rohingya Society in Malaysia” (RSM), la maggior parte di loro non sono andate a scuola, non conoscono l’inglese, non hanno gli “strumenti” per lavorare. La tradizione, ma anche la povertà, vuole che le risorse delle famiglie siano investite nella formazione dei figli maschi. Le donne sono state educate alla vita casalinga, credono di essere nate per custodire i propri figli, senza altre aspettative. Le loro decisioni sono prese dagli uomini che le sono accanto e ciò le rende molto vulnerabili. Giunte in Malesia, cercano disperatamente di essere ospitate nelle case di compatrioti già residenti. Sono molte svantaggiate rispetto agli uomini.
Una soluzione per le bambine e donne rohingya: il matrimonio combinato
Ecco perché, la soluzione continua a essere il matrimonio combinato dalle famiglie. Un matrimonio “infantile”, con un rifugiato in Malesia dai 20 ai 30 anni, della stessa etnia. Una realtà estesa, bambine – che lasciano la Birmania da sole, che i padri affidano a chi si occupa del trasporto, pagando circa 1.700 euro, con la speranza che vadano verso una vita migliore.
I matrimoni si contraggono facilmente, con l’accordo tra il padre e il futuro marito, sono registrati all’interno della comunità rohingya. Le famiglia delle spose-bambine, affronta soltanto le spese del viaggio, mentre il futuro marito s’impegna a mantenerla, con gli eventuali figli, per sempre.
Ma questi matrimoni non sono riconosciuti dallo Stato della Malesia, è questo determina delle complicazioni al momento della registrazioni dei nuovi nati, con la conseguenza che un buon numero di bambini rohingya senza la cittadinanza malaysiana, sono esclusi dall’assistenza sanitaria e dall’accesso all’istruzione. Crescono analfabeti, con l’unica opportunità di frequentare corsi di apprendistato organizzati dalla Nazioni Unite o dalle Organizzazioni non governative. Continua a denunciare Tasmida che la RSM riesce a insegnare loro inglese, le nozioni base di matematica, ma non ha le risorse per retribuire i professori in grado di dare ai loro figli una formazione adeguata.
La Malaysia, quindi, non è la soluzione. I Rohingya non sono perseguitati, ma risultano come immigrati illegali e, quindi, privi di diritti. Se da un lato i bambini non possono andare a scuola, dall’altra i padri rischiano continuamente di essere sfruttati sul lavoro, con la paura costante della detenzione da parte delle autorità malesi. Sperano che le Nazioni Unite li ricollochi in paesi come gli Stati Uniti d’America o l’Australia, dove, se vengono accolti, vedranno riconosciuti i loro diritti di rifugiati, avranno la nazionalità e potranno iniziare a costruire la loro vita. Ma le procedure sono lunghe; possono richiedere anche sette anni, o tutta una vita.
Dal 2015, non sanno più dove poter fuggire
Nel frattempo nella Malesia, nell’ultimo anno, cresce la preoccupazione che l’arrivo dei profughi possa causare una crisi umanitaria tale da nuocere i settori locali del turismo e del commercio. Il paese, che ospita circa 150,000 rifugiati dei quali 45,000 sono rohingya, applica la politica dei respingimenti, le guardie costiere impediscono i nuovi approdi, limitandosi a rifornirli di provviste per la continuazione del viaggio.
Comportamento analogo è stato adottato dall’Indonesia che oltre ad aver dichiarato che gli immigranti che riescono a sbarcare potrebbero essere espulsi, respinge le imbarcazioni dopo avergli fornito assistenza.
La Thailandia è stata per molto tempo sito centrale del sud – est asiatico dei trafficanti di uomini, che la usavano per nascondere gli immigranti nella giungla, in attesa di poterli trasportare in altri paesi. Ma dopo il 1° maggio 2015, alla scoperta di una fossa comune con circa 30 vittime, presumibilmente rohingya, vicino al confine con la Malesia, il governo thailandese ha preso severe misure nei confronti dei trafficanti e ha rafforzato i controlli in mare. I trafficanti, per paura di essere arrestati, hanno abbandonato le imbarcazioni cariche di uomini, in mare.
Questo ha portato i governi di Kuala Lumpur e di Jakarta a riaprire le frontiere per l’accoglienza, condizionata per soli 12 mesi e sotto la responsabilità economica delle Nazioni Unite.
Si stima che nel 2015 circa 1000 rohingya siano morti in mare, per fame, disidratazione e percosse da parte degli equipaggi delle barche.
Ancora oggi, a circa un anno dalla vittoria elettorale della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, l’etnia Rohingya non è stata inserita nell’elenco delle 135 etnie riconosciute dalla costituzione birmana.
Fonti:
Rohingya Society in Malaysia (RSM)
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