Cultura, Storia e storie, lungo la Route 66
La Route 66, la strada statunitense più conosciuta al mondo, è prossima a compiere 100.
Lunga complessivamente 3.940 chilometri, costruita per unire l’Est con l’Ovest, da Chicago a Santa Monica, attraversando gli Stati dell’ Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, Arizona e, infine, California, festeggerà il centenario nel 1926.
Strada che oggi non esiste più nella sua interezza, sostituita da una delle autostrade dell’Interstate Highway System, ma ciò che ne rimane è talmente carico di storia da trattenere lo status paradigmatico nell’immaginario collettivo e da indurre ancora tante persone a seguirne il percorso.
Dare il massimo sulla Route 66
Celebrata dalla musica fin dagli anni ’40 con Get Your Kicks on Route 66, cantata da Nat King Cole citando tutte le città che attraversava, canzone re-incisa nel tempo (celebre la versione dei Rolling Stones) fino al 2006, quando interpretata da Chuck Berry e John Mayer, portò quest’ultimo alla nomination per un Grammy Award.
Sulla Mother Road, dritti verso la Beat Generation
Solennizzata soprattutto dalla letteratura, da John Steinbeck nel suo celebre Furore (1939) dove la definisce Mother Road (strada madre), che rimanda senz’altro a On the road di Jack Kerouac – del quale il 21 ottobre di quest’anno si è commemorato il 55 anniversario della morte – e alla cultura di cui è stato profeta: la Beat Generation.
Kerouac fondò tale movimento culturale con Allen Ginsberg e William S. Burroughs, il romanzo On the road (Sulla strada), pubblicato nel 1957, ne divenne il manifesto, proclama di un modo di vivere anticonvenzionale senza tempo. Come dimostrò la pubblicazione nel 2007 – a 50 anni della sua composizione – dell’opera teatrale dell’autore, Beat Generation.
American Exodus
Furore di Steinbeck narra dei nuovi poveri, bianchi e protestanti, costretti ad emigrare negli anni ‘30 per colpa della Grande Depressione e a percorrere chilometri lungo la Route 66, alla ricerca di lavoro. Esattamente come le persone che la fotografa Dorothea Lange, la quale, andando per Oklahoma, Nuovo Messico, Arizona e California, nello stesso decennio, ritrasse mentre andavano verso Ovest per colpa del Dust Bowl.
Le sue immagini confluirono nel libro American Exodus, commentate dal marito, l’economista Paul Taylor.
La storie mai raccontate delle donne sulla Route 66
Ricordavano Dorothea Lange nel 2016, la National Park Service e l’organizzazione no-profit Cinefemme, che in occasione del 90° anniversario della lunga strada, decisero di creare “un resoconto storico online delle esperienze delle donne e delle ragazze lungo la Mother Road”, come riportava journalrecord.com, con il website Route 66: The Untold Story of Women on the Mother Road.
I 7mila scatti dell’etnografa italiana Davanzo
Tra le protagoniste compariva l’italiana Donatella Davanzo, ricercatrice presso il Center for Southwest Research dell’Università del New Mexico e autrice di un’importante documentazione fotografica sugli edifici lungo la Route 66, fino ad Albuquerque (dove tutt’ora risiede) e che ospita il più grande tratto ininterrotto della strada rimasto in un’area urbana.
In due anni, Davanzo, scattò 7.500 fotografie – costudite nella biblioteca dell’Università, e che, in merito alla Route 66, commentò a journalrecord.com: “Ho iniziato a considerare il corridoio storico come un paesaggio culturale in grado di collegare la storia americana e i luoghi e le comunità locali”.
Qui non è Nuova York
A distanza di otto anni ritroviamo Donatella Davanzo nel libro Qui non è Nuova York. 100 giorni nell’America profonda, scritto a quattro mani dai giornalisti Maria Teresa Cornetto e Glauco Maggi, moglie e marito, a New York dal 2000 e cittadini Usa dal 2018, appena editato da Neri Pozza.
I due inviati italiani raccontano i loro due viaggi coast to coast: il primo da New York a Portland (Oregon) e ritorno; il secondo da New York a San Diego (California). Nord – Sud, Est – Ovest.
Complessivamente 32mila chilometri macinati in macchina, per descriverci l’America meno conosciuta, raramente visitata e raccontata dai media mainstream (anche locali), ma più vera, il cuore del Paese e i suoi siti storici, leggendari, come The Lost Colony, la colonia inglese fondata nel 1585 sull’isola di Roanoke, North Carolina, e misteriosamente scomparsa, al nuovo National Lynching Memorial (il Memoriale Nazionale del Linciaggio) a Montgomery, Alabama.
Il Memorial
Il Memorial è stato aperto nel 2018 in questa città, Montgomery, strettamente legata alla schiavitù, al razzismo e alle sue derive: oltre 4000 uomini, donne e bambini afroamericani, tra il 1877 e il 1950, furono impiccati, bruciati vivi, fucilati, annegati e picchiati a morte dalla folla bianca o per mano di poliziotti bianchi.
Non è un luogo di rivendicazione; piuttosto un desiderio di ricostruzione fedele della Storia, per conferire la giusta identità ai neri, l’assunzione delle proprie responsabilità da parte dai bianchi, per avviare quel processo di guarigione e giungere, finalmente, alla riconciliazione.
National Lynching Memorial è, infatti, la denominazione informale dell’istituzione il cui nome ufficiale è National Memorial for Peace and Justice.
Immagini: 1) USA, la Route 66; 2) fotografia di Dorothea Lange che documentò le migrazioni dei contadini negli anni ’30 verso la California; 3) Donatella Davanzo, ricercatrice presso il Center for Southwest Research, autrice di un’importante documentazione fotografica sugli edifici lungo la Route 66, realizzata nel 2016, al 90° anniversario della costruzione della strada; 4) copertina del libro ‘Qui non è Nuova York. 100 giorni nell’America profonda’, scritto a quattro mani dai giornalisti Maria Teresa Cornetto e Glauco Maggi (Neri Pozza Editore, 2024); 5) Montgomery (Alabama), l’interno del National Memorial for Peace and Justice – by Soniakapadia – wikimedia.org