Tutti a casa. L’ingiusta storia della professoressa Maria Silvia Spolato

Tutti a casa, il cortometraggio di Geraldine Ottier, racconta la storia di Maria Silvia Spolato, matematica che perse il lavoro d’insegnamento, l’amore, la famiglia e finì a vivere per la strada perché nel 1972, un settimanale pubblicò delle fotografie che la ritraevano alla manifestazione dell’8 marzo con un cartello che rimandava al Movimento di Liberazione Omosessuale.

Allora Maria Silvia Spolato aveva 37 anni. Da un anno viveva a Roma, dove aveva fatto coming out (la prima dichiarazione pubblica in Italia di una donna), fondato sia il movimento Fronte di Liberazione Omosessuale (FLO) sia, con il giornalista e politico Angelo Pezzana, la rivista tematica Fuori, acronimo di Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzione Italiano, la prima organizzazione italiana dichiaratamente gay, dove confluirà FLO.

Era nata a Padova nel 1935. Lì si era laureata in scienze matematiche con il massimo dei voti. Trascorse un periodo a Milano, dove lavorò presso l’ufficio brevetti della Pirelli e scrisse manuali per studenti editi da Fabbri e Zanichelli. Una volta a Roma continuò a insegnare ma nel pieno della rivendicazione dei diritti civili e della liberazione sessuale introdotti dal movimento studentesco dal 1968, Maria Silvia pensò che i tempi fossero maturi per squarciare i veli su ogni forma d’ipocrisia, permettendo a tutti di essere se stessi senza pregiudizi e discriminazioni. Si dedicò all’impegno politico mettendoci la faccia e perse.

Per il suo attivismo a favore dei diritti degli omosessuali e la relativa composizione e pubblicazione di testi sull’argomento (il suo I movimenti omosessuali di liberazione è ancora oggi considerato un testo fondamentale dei diritti civili), Maria Luisa fu considerata dal Ministero dell’Istruzione “indegna” all’insegnamento e fu licenziata.

In condizioni economiche sempre più esigue, da principio ospite da amici, poi vagabondando di città in città, si ritrovò sola e a vivere ai bordi della società. Racconterà molti anni dopo vissuti da clochard, ospite di una struttura protetta: “Un giorno, con una scusa, mi hanno messo alla porta. Il mio schierarmi politicamente dava fastidio. Ho perso così il posto, pian piano ho finito i soldi, e da lì sono cominciate le mie storie. Dormivo da amici, perché non ero più in grado di pagarmi l’affitto. Vagavo di qua e di là, di città in città. La mia casa erano diventati i treni. Ormai mi conoscevano controllori e macchinisti di mezza Europa. Posavo il capo dove capitava. Mangiavo quello che riuscivo a procurarmi. Certo, mi sarebbe anche piaciuto uscirne fuori, trovarmi un posto dove andare a stare. Per sempre. Ma dove? Nessuno mi voleva più”.

Alla fine degli anni Novanta a Bolzano, per una grave infezione a una gamba Maria Silvia venne ricoverata in ospedale: una persona caritatevole aveva chiamato l’ambulanza. Una volta curata le fu proposto di andare a vivere a Casa Margaret, struttura protetta per donne in difficoltà, poi nel 2012 a Villa Serena, dove si è spenta il 31 ottobre di 6 anni dopo. Aveva 83 anni.

Dopo tanto vagare e tanta solitudine, dopo aver conosciuto la discriminazione,  la persecuzione, l’asprezza della vita da clochard, comprese le violenze dei vigliacchi che per strane deviazioni della mente e dell’animo si accaniscono contro i senza tetto, Maria Silvia aveva trovato qualcuno che la voleva e un posto dove andare.

Ci mise del tempo per riacquistare fiducia, per aprirsi e confidarsi con chi la circondava, la direttrice e gli operatori della struttura. A loro raccontò la sua storia e ritrovò la serenità sufficiente per riprendere a fotografare, una delle sue passioni oltre alla scrittura e lettura e, soprattutto la matematica che ha coltivato in qualunque situazione si trovasse, fino alla fine dei suoi giorni.

Il corto Tutti a casa, che racconta questa ingiusta storia, è disponibile gratuitamente in streaming sulla piattaforma Rai Play.

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