Hikikomori. Una realtà che sfugge alla realtà

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Gli “eremiti sociali” così li chiamano in Italia gli adolescenti e i giovani adulti che decidono di recidere i rapporti con il mondo. Si chiudono in casa, spesso nella loro camera, dove vi trascorrono mesi se non anni, senza avere nessun contatto diretto con l’esterno.

L’unica compagnia che accettano è, nella maggior parte dei casi, il computer.

Il fenomeno è stato individuato in Giappone fin dagli anni ‘80 del Novecento e definito con il termine “hikikomori” che significa, per l’appunto, isolarsi, stare in disparte. La parola è stata coniata dallo psichiatra Tamaki Saito, quando prese consapevolezza che i ragazzi che mostravano apatia e letargia (propensione patologica al sonno continuo e profondo), presentavano una sintomatologia comune come l’incomunicabilità e la scelta d’isolamento totale.

Nel paese del Sol Levante si parla attualmente di circa 1 milione di casi, che corrisponde all’1% della popolazione giapponese. Ma non è un fenomeno esclusivamente giapponese, riguarda tutti i paesi sviluppati del mondo. E l’Italia non fa eccezione. Si contano circa 100mila ragazzi (stima approssimativa) che hanno rifiutato la scuola, le amicizie, ogni forma di contatto umano e vivono auto reclusi. Si concentrano nelle città del nord del Paese, pochi sono in trattamento medico e, fino a ora, l’hikikomori sembra essere un fenomeno soprattutto maschile, con un rapporto tra ragazzi e ragazze di 5 a 1.

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Tamaki Saito

I motivi scatenanti risiedono nel sentirsi inadeguati nelle prestazioni e nell’aspetto fisico, dai modelli di efficienza ed estetici imposti dalla cultura dominante, dal bullismo e per i più grandi dalla mancanza di opportunità lavorative e sociali.

Non sempre sono dei computer dipendenti. Parte di loro naviga su Internet e porta avanti rapporti virtuali. Mentre i non interessati al computer trascorrono il loro tempo leggendo o senza fare niente e spesso capovolgono il ritmo circadiano; dormono di giorno, sono svegli di notte.

Le conseguenze possono essere molto serie, ma raramente tragiche.

In un’intervista di qualche anno fa il dottor Saito affermava che non si registrano casi di ritorno spontaneo alla normalità, ma che è molto difficile che gli hikikomori decidano per soluzioni estreme, perché sono fondamentalmente dei narcisisti e questo li salva “una salutare forma di autocompiacimento” afferma Saito “gli impedisce di togliersi la vita”.

Le cause e il ruolo del web

Antonio Piotti, il primo da sinistra

Antonio Piotti, il primo da sinistra

Antonio Piotti, psicoterapeuta, socio della  Fondazione Minotauro la prima ad approfondire il fenomeno in Italia, spiega che pur essendo molto difficile individuare le cause che sono alla base dell’auto reclusione, un motivo scatenante risiede all’interno del cambiamento del contesto sociale.

Nel passaggio, spiega Piotti, da una società basata sul super io, sul concetto di colpa, sulla punizione, sull’identità, sui ruoli ben definiti a una società di tipo narcisistico dove il super io si è trasferito sul concetto “dell’ideale dell’io” e il senso di colpa è stato sostituito da quello della vergogna.

Tanto è più grande è la distanza tra il mondo che si è immaginato per sé e la realtà circostante, tanto più grande è il senso di vergogna.  In una società dove l’esposizione del corpo non è più repressa ma richiesta, un adolescente, che ha per antonomasia difficoltà con il proprio corpo, deve avere un fisico adeguato all’esibizione o aver fatto i conti con se stesso se il suo aspetto non corrisponde ai canoni previsti. Un processo difficile in una fascia di età storicamente fragile, che s’individua tra l’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado e il primo anno della scuola secondaria di II grado (tra i 13 e 14 anni).

hikikomori-cause-e-ruolo-del-webIl fenomeno dell’hikikomori non va confuso con la dipendenza dal web. Le tecnologie, spiega Antonio Piotti, sono una conseguenza, non la causa. Al contrario spesso è proprio Internet a salvare questi ragazzi dalle derive psicotiche perché la rete con i video giochi i social network le chat, diventa un rifugio e un sostituto dalla realtà dalla quale fuggono.

Il ritiro è il primo passo protettivo che questi ragazzi assumono nei confronti di se stessi e che li distoglie da progetti infausti perché nella rete trovano la possibilità di instaurare rapporti sociali alternativi, senza l’uso del proprio corpo che giudicano inadeguato per relazionarsi con il prossimo.

 I genitori

isolamento-hikikomoriPer questo suggerisce ai genitori di riformulare il contatto con il figlio autoescluso proprio nella rete. Anzitutto li invita a conoscere le attività che il ragazzo svolge su Internet. Quale identità avatar ha scelto, se fa giochi di ruolo, se ha un profilo sui social, se ascolta musica, guarda film o si limita ai video giochi. Ed è all’interno delle rete che un genitore, esattamente come fanno i terapeuti, ha la possibilità di riprendere e riformulare il contatto con il figlio e riprendere il dialogo.

Per i ragazzi il cui isolamento non è condizionato dall’uso del computer, Tamaki Saito suggerisce ai genitori di non rimproverare il figlio hikikomori, ma accettare la sua condizione e farlo vivere serenamente in casa. In questo modo migliora il rapporto genitore-figlio e lo stesso ragazzo parla al genitore delle sue difficoltà e del suo dolore. E da qui che può decidere di andare in terapia. Mentre se perdura il conflitto tra genitori e figli è impossibile trovare una soluzione.

La letteratura e il teatro

Per chi volesse avvicinarsi al tema, la letteratura dedicata al fenomeno dell’auto reclusione è ampia; spazia dai libri di Tamaki  Saito, agli italiani Hikikomori: adolescenti auto reclusi dell’antropologa dell’antropologa Carla Ricci e Il banco vuoto di Antonio Piotti e suggeriamo il sito della Fondazione Il Minotauro.

Una scena della piece Hikokimeri

Una scena della piece Hikikomeri

Al fenomeno hikikomori è dedicato uno spettacolo teatrale dal titolo omonimo in scena fino al 18 dicembre 2016, al Teatro dell’Orologio a Roma, che fa parte di una trilogia sul Giappone di oggi. Il testo teatrale, scritto da Katia Ippaso e Marco Andreoli, con messinscena diretta da Arturo Armone Caruso, s’ispira e rielabora Le Metamorfosi di Frank Kafka.

Protagonista un adolescente che vive dolorosamente la pressione sociale espressa dal sistema autoritario e repressivo instaurato dal padre. L’unico rapporto che il ragazzo accetta è quello, pur conflittuale, con la madre.

Nel testo così come nella trasposizione teatrale, spiega il regista Arturo Armone Caruso “non c’è un giudizio né sulla famiglia, né sulla scuola, né tanto meno sulle scelte drammatiche dell’adolescente ma solo l’urgenza di formulare delle domande. Paure, desideri, affetti negati, figure genitoriali sfocate illuminano semplicemente un possibile cammino che consenta di districarsi, di uscire dalla palude dei fraintendimenti affettivi e sociali per attingere a un modo di raccontarsi capace di ricreare i presupposti dell’incontro”.

L’assenza di morale in senso lato, mette ancora più a nudo la necessità di una vita-altra. La ricerca partecipativa verso un comportamento che sia frutto della propria libertà di essere; in cui l’individuo non si senta oppresso da canoni im-posti senza rispetto della natura del creato.

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