Il disagio di un referendum senza riforme
Mancano 5 giorni al fatidico Referendum del 20-21 settembre 2020 del tanto invocato taglio dei parlamentari (quale magica formula per il contenimento della spesa pubblica).
Da 945 parlamentari (630 deputati e 315 senatori) a 600 parlamentari, articolati in 400 deputati e 200 senatori. 1 deputato ogni 155.00. 1 senatore ogni 302.000 abitanti. Un risparmio indicativo di 52 milioni di euro. Ma ha un senso parlare di taglio dei parlamentari tout court senza che la mera “sforbiciata” sia all’interno di una riforma organica della legge elettorale e dei regolamenti parlamentari?
I cittadini che non hanno una solida base giuridica si trovano a vivere un autentico disagio civico e personale. Considerando inoltre che il suddetto taglio è collegato a proposte di riforme di legge non manifeste, se non in brevi stralci all’opinione pubblica che rappresenterebbero l’autentico cambiamento.
Pur non essendo una testata politica, abbanews.eu si è rivolta al costituzionalista Michele Belletti, Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università Alma Mater di Bologna, per provare a fare chiarezza storico-giuridica, essendo stati chiamati a esercitare un “diritto di cittadinanza” su una tematica che, forse, sarebbe più di competenza istituzionale che popolare.
Prof. Belletti, i fautori del no, così come lo strutturato Comitato del no, gruppo nutrito di costituzionalisti, dottorandi e assegnisti, sostengono che il fantomatico “taglio dei parlamentari” avrà un impatto riduttivo sulla rappresentanza democratica. Lei come affronta questo assunto?
Il punto per cui non mi sono schierato pubblicamente sul sì o sul no, è proprio questo. Credo che bisognerebbe evitare questo clima da ring. Noi costituzionalisti siamo studiosi, non pugili. La questione va affrontata nella sua globalità al di là di dicotomici schieramenti. L’impatto c’è, ma se la riforma fosse come vorrei io, non sarebbe così drammatico. Una Camera del Senato composta di 200 parlamentari non può funzionare, non riuscirebbero ad eseguire l’attività istruttoria, così come potrebbe farlo un Senato di rappresentanza delle Regioni. La questione centrale è che cosa vogliamo fare con le riforme. Chiuderci in un baluardo inaccessibile rispetto a ogni accenno di modifica costituzionale, oppure aprirsi ad una costruttiva opera di modifica costituzionale, partendo dai cambiamenti socio-culturali e normativi dal ’48 ad oggi?
Ma la nostra Costituzione è davvero la “più bella del mondo? Un cambiamento costituzionale va considerato come un “attentato” al lavoro dei padri costituenti?
Non c’è dubbio che nella prima parte è una delle migliori al mondo, la seconda parte relativa all’Ordinamento della Repubblica presenta delle anomalie, in particolare il bicameralismo perfetto. Vale a dire il potere legislativo viene esercitato dalle due Camere con i medesimi poteri e compiti. Il Parlamento rimane identico; deputati e senatori continuano a fare le stesse cose. Se l’attuale proposta referendaria è un punto di partenza per discutere il bicameralismo paritario, potrebbe avere una sua valenza. Consideriamo che in Europa, il bicameralismo perfetto esiste solo in Italia e in Romania.
Lei ha accennato al “Senato delle Regioni”. Intende dire che bisognerebbe dare maggiore forza alla rappresentanza regionale?
Pensiamo ciò che ci ha mostrato la situazione socio-politica che si è creata con l’emergenza pandemica, dove il governo ha agito con una certa libertà come accade in situazioni di emergenza, senza un controllo adeguato del Parlamento. Tuttavia c’è stato un forte contropotere dei presidenti della Regione che sono andati oltre le differenze partitiche difendendo le istanze locali. Se sì dà agli esecutivi delle Regioni, uno spazio nella Seconda Camera, l’impatto verrebbe mitigato da una rappresentanza regionale.
Non crede che un rafforzamento della rappresentanza regionale, come contrappeso al Governo accentuerebbe la divisione socio-politica e culturale nella Nazione, con una ricaduta negativa sulla governabilità e il senso dello Stato?
Si tratta sempre di una questione di metodo: in questo periodo ci si è confrontati soprattutto a colpi di provvedimenti e ricorsi al Tar. Per esempio, l’ordinanza della Calabria per la riapertura dei locali, all’inizio dell’estate, quando il governo aveva previsto l’apertura solo per le consegne a domicilio e i take away. Si è andati al muro contro muro e il provvedimento è stato impugnato dal Ministro degli Affari Regionali al Tar. Se il metodo si articola in una contrapposizione continua tra Governo e Regioni, lo stallo e la confusione sono una conseguenza inevitabile. Se invece si va verso un metodo cooperativo, questa frattura potrebbe ricomporsi e le Regioni, con una logica sussidiaria, potrebbero contribuire al benessere nazionale, attraverso la conferenza Stato-Regioni.
Nei dibattiti politici – o almeno tali dovrebbero essere – si discute molto sul fatto che la conferma del sì avrebbe una ricaduta anti-rappresentativa sull’elezione del Presidente della Repubblica.
Su questo non c’è dubbio. Qualora passasse il referendum, in una situazione istituzionale come l’elezione del Presidente della Repubblica, a cui partecipano 3 delegati a Regione, in un contesto bipolare su 60 delegati (20 regioni per 3 delegati ciascuna ndr), si potrebbe dare il caso che una maggioranza parlamentare del Governo elegga il Presidente della Repubblica, cosa mai verificatasi nella storia della Repubblica. Ricordiamo che le Regioni, per spirito costituzionale, rappresentano un contropotere alle maggioranze parlamentari.
Le fornisco un altro esempio. Un taglio tout court, senza una modifica dei regolamenti parlamentari (atti normativi di competenza parlamentare, ciascuna Camera adotta il proprio regolamento), porterebbe ad anomali procedurali, come per esempio le 14 Commissioni di competenza in Senato previste per la discussione dei disegni di legge.
Dunque, il taglio dei parlamentari può essere un buon avvio per la stagione delle riforme ma deve essere contestualizzato all’interno di una riforma più organica della Pubblica Amministrazione. Quali sono i fattori fondamentali da considerare?
Essenziale toccare i seguenti fattori: equiparazione dell’elettorato passivo ed attivo del Senato; delegati regionali; circoscrizione regionale e non governativa; riforma della legge elettorale. La qualità dei candidati è l’elemento sostanziale, così come la loro elezione su base democratica. L’attuale scelta dei deputati non è diretta, poiché i deputati sono scelti dalle segreterie di partito. Più importante togliere le liste bloccate del numero dei parlamentari, attraverso una lista di preferenze o collegi uninominali.
Con il bicameralismo perfetto si ha un raddoppio del lavoro parlamentare con il rischio di maggioranze diverse. Sarebbe necessario riaprire la stagione delle riforme organiche, stabilendo un metodo razionale, partecipato e funzionale alla governabilità e alla democrazia, non con l’aggressività e la radicalità delle prese di posizione.
Non bisogna mai dimenticare che la Costituzione è un sistema organico, in cui ogni elemento è collegato ad un altro. Una riforma ha ricadute sull’intero ordinamento. Il problema non è la riduzione, è il metodo. Lasciare le cose così come stanno non ha funzionato. Bisogna ripensare l’andamento degli organi dello Stato, in un’ottica globale di collaborazione tra le forze. Le riforme sono sempre state attuate in una logica di contrapposizione.
C’è chi aleggia il fantasma di un ritorno ai “pieni poteri” in cui il taglio dei parlamentari rappresenta l’inizio di una visione politica anti democratica. Reputa che sia una pre-visione realistica?
Non vorrei fossero le ultime parole famose, ma credo che sia impossibile che si ri-presentino derive totalitarie come quelle che hanno travolto e stravolto il Novecento. L’estrema cautela di pesi e contrappesi della nostra Costituzione, nata dopo il ventennio fascista, la fine del secondo conflitto mondiale e la nascita dei due blocchi socialista-comunista e democratico-liberale, poteva comportare un’incognita del futuro. Per questo si optò per decisioni garantiste piuttosto che per una democrazia “governante”, come quella americana, britannica o come quella tedesca, dopo la seconda guerra mondiale. Nella Germania divisa in due, la Costituzione della Repubblica Federale Tedesca fu scritta dagli Alleati. Attualmente non possono esistere derive autoritarie. Basti pensare al governo Berlusconi che nel 2008 godeva della maggioranza più ampia della storia repubblicana, la democrazia era, comunque, garantita dai pesi e contrappesi. E non dimentichiamo il ruolo dell’Unione europea. Sarebbe un dramma uscire dall’euro, mi auguro nessun parlamentare abbia in programma di farlo.
Ora è l’occasione di rimeditare, prima di tutto, sul bicameralismo perfetto e determinati organi previsti dalla Costituzione come il Cnel – Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro che di fatto non esercita un ruolo legislativo o di consulenza per il Governo o le due Camere.
Mi permetta di chiederle un orientamento di voto per domenica prossima. Glielo chiedo anche per motivi di disorientamento personale.
È necessaria una vera riforma costituzionale, ma oggi – con questo tipo di bipolarismo – vedo una radicale contrapposizione. Come le dicevo prima, la questione è molto ampia. Un semplice sì o no, non è risolutivo. Posso solo dirle che questo sistema ha bisogno di una scossa. Sono curioso di vedere l’effetto di un cambiamento. Su questo sono ottimista.
Terminata l’intervista mi viene da pensare: votare sì, come scommessa per un futuro prossimo di maggiore fattibilità giuridica e sociale o votare no, in attesa di una autentica proposta di riforma?! Terza via: annullare la scheda.