Agnese e Giovanni, di scuola in scuola, sulle tracce di Aldo Moro e Peppino Impastato

Aldo Moro e Giuseppe (detto Peppino) Impastato sono stati trovati uccisi lo stesso giorno, il 9 maggio del 1978. Il primo un accademico e una delle figure centrali della politica di quegli anni, il secondo giornalista e attivista politico. L’uno nato a Bari nel 1916, l’altro a Cinisi (Palermo) nel 1948, differenti in tutto – non solo per i netti confini generazionali – ma con obiettivo comune: rendere l’Italia migliore. Ciascuno a suo modo: Moro attraverso la politica che voleva mobile ai cambiamenti sociali e inclusiva delle sue esigenze; Impastato combattendo la mafia, con l’unica arma in cui era maestro: la parola. Fermati, per sempre, rispettivamente dal terrorismo dalle Brigate Rosse (dopo 55 giorni di sequestro) e dalla mafia di Don Tano Badalamenti.

Agnese Moro e Giovanni Impastato in questo freddo marzo del 2018 stanno visitando insieme le scuole d’Italia dal sud al nord per ricordare agli studenti, il padre Aldo Moro e il fratello Peppino Impastato.
Attraverso il racconto delle storie dei loro familiari e della propria dolorosa esperienza Agnese e Giovanni trasmettono agli studenti i valori inscalfibili di chi crede in ciò che fa e il significato del perdono.

Risvegliarsi dal torpore

“La differenza del presente rispetto a 40 anni fa – esordisce la socio psicologa e ricercatrice Agnese – è che allora le generazioni avevano consapevolezza di sé, credevano che tutto dipendesse da loro e da come agivano. Oggi, invece, siamo convinti di non contare niente e, quindi, quel che facciamo non cambia nulla. Ma è un alibi – continua Agnese – e dobbiamo recuperare quella fiducia, perché nessuno ce la può dare”.
Rincara Giovanni: “Oggi figure come Aldo e Peppino sembrano alieni, nonostante l’attualità delle loro battaglie. Mio fratello era un giovane animato dalla voglia di giustizia e legalità. Ha rotto con la cultura mafiosa che esiste oggi come allora. Spesso, vedo nei giovani l’indifferenza – prosegue Giovanni – e dall’indifferenza si cade nella rassegnazione e allora non si torna più indietro. Dalla rassegnazione si fanno forti alcuni dei mali peggiori – allerta Giovanni – non solo la mafia ma anche, per esempio, il razzismo”.
Si possono perdonare gli assassini delle persone amate? “Si deve – risponde Agnese – perché se si vive nel rancore e nell’odio, il rapimento e l’uccisione di tuo padre non sono solo il tuo passato: diventano il tuo presente. A un certo punto ho detto basta – continua a raccontare Agnese – e nel 2009 quando Bertagna (sacerdote Guido Bertagna ndr) mi ha invitata all’incontro con i responsabili della lotta armata (le Brigate Rosse, ndr), dopo un primo diniego ho accettato”.

E la vita ricresce buona

La parole di Agnese si fanno commoventi: “Ascoltarli è stato difficile. Ma la sorpresa è stata scoprire che le persone cambiano, che anche loro (i pentiti della lotta armata ndr) erano esseri umani che soffrivano per aver fatto cose sbagliate e irreversibili. Ho scoperto la capacità di trovarci disarmati gli uni di fronte agli altri. Ho potuto rimproverarli, arrivando poi a costruire legami di comprensione e affetto. Questa per me – termina Agnese – è stata una forma di giustizia. E così la vita ricresce buona”.

Per Giovanni la giustizia è preparatoria al perdono.  Dopo la morte di Peppino, Giovanni con la mamma Felicia Bartolotta Impastato, intrapresero una lunga battaglia legale terminata soltanto nel 2001, quando La Corte d’Assise riconobbe la mafia responsabile della morte di Peppino e nel 2002 con la condanna all’ergastolo di Gaetano Badalamenti. Per depistare le indagini, subito dopo l’attentato del 1978 si disse che Peppino era morto mentre preparava un attentato terroristico: ucciso e offeso.  Anche per questo a Giovanni sta a cuore  far comprendere ai giovani il valore della giustizia. “Chiedere giustizia – afferma Giovanni – non significa avere sete di vendetta ma avere sete di verità. La verità storica che io e mia madre abbiamo sempre saputo: ossia che Peppino era stato ucciso dalla mafia”.  L’intensissimo bisogno di giustizia, ma l’incapacità di odiare come affermava lo scrittore Primo Levi che Giovanni, infatti, cita, aggiungendo: “Io potrei anche perdonarli, ma non spetta a me. Spetta a qualcuno che è più in alto di me”.

Ha detto un giorno Levi, riferendosi alla sua esperienza nel campo di concentramento tedesco: “Sono disposto a perdonare i miei aguzzini e a non provare rancore nei confronti dei nazisti. Ciò che m’interessa e rendere la testimonianza diretta,  fornire un contributo personale affinché si eviti il ripetersi di tali e tanti orrori”.

Lo stesso scopo di Agnese e Giovanni, oltre a essere testimoni di vite verticali, trasmettere  l’importanza del senso civico, della partecipazione, della consapevolezza di sé, e i valori della giustizia e del perdono, andando di scuola in scuola, dal sud al nord d’Italia, con la tenace speranza “che tali e tanti orrori” finiscano per non ripetersi più.

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