Giornalisti: quando la notizia fa paura

Il 2015 è stato l’anno di Charlie Hebdo. Simbolicamente, l’anno nero per la morte o sul lavoro e per il lavoro dei giornalisti. E non solo simbolicamente, visto che ha segnato una strana, inquietante inversione di tendenza: per la prima volta, infatti, i giornalisti morti nei Paesi teatri di guerra sono di meno rispetto a quelli morti in luoghi teoricamente “non pericolosi”, addirittura, come nel caso di Parigi, seduti al proprio desk in redazione.

Un po’ per ricordare Giulio Regeni (ricordarlo solo, perché la sua storia, soprattutto l’orrida fine, non è ancora abbastanza chiara per essere raccontata), un po’ per renderci conto di quanto a volte la notizia possa far paura (e quindi, quanto sia importante) eccoci a narrare le tristi cifre di una professione che sta diventando sempre più “pericolosa”.

Nel 2015, lo scrive Reporter Senza Frontiere nel proprio triste computo fatto come ogni anno, sono morti 110 giornalisti. Di queste morti, 67 sono sicuramente collegate al lavoro giornalistico, mentre 43 hanno perso la vita in circostanze (come spesso capita) “misteriose”. I paesi più rischiosi sono quelli del medio oriente (11 i morti in Iraq, 10 in Siria). Nel computo entra ovviamente la Francia, con le otto vittime trucidate durante l’attacco liberticida alla redazione di Charlie Hebdo. E poi: Honduras, Yemen, Messico, Nicaragua.

Penoso anche, e soprattutto, il conteggio degli imprigionati per il loro mestiere: sono, in questo momento, 153. Qui, ma non è una sorpresa, la classifica dei Paesi vede protagonista la Cina, dove la libertà fa molto male: 23 giornalisti in carcere. E spicca pure la presenza della Turchia, con otto cronisti detenuti nelle sue prigioni.

Il 2015 è stato l’anno di Charlie Hebdo. Ed è stato contemporaneamente l’anno in cui si muore di più raccontando la società e il malaffare che non la guerra.

Ad essere colpita, ovviamente, è la libertà: di raccontare, e di ascoltare il racconto. Dovremmo ricordarcelo. Sempre. libertà di stampa

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