Stadio polifunzionale. A ciascuno il suo
A ciascuno il suo stadio potrebbe essere il motto per rilanciare il calcio nostrano. Nella dimensione ormai permanente di crisi calcistica, sono in molti a sostenere che la proprietà di un impianto sportivo possa dare un forte incremento ai proventi delle squadre. Si tratta in sostanza di arricchire gli impianti di attrazioni diversificate, trasformandoli in spazi dedicati al profitto e all’intrattenimento, capaci di produrre ricavi addizionali.
La logica che anima il discorso è la creazione di un nuovo business attraverso la costruzione di uno stadio pensato come luogo di aggregazione non solo domenicale; uno stadio concepito come struttura all’avanguardia capace di attrarre spettatori durante tutto l’arco della settimana. Ai margini del dibattito, una questione economica.
Ad oggi le maggiori entrate per una società di calcio italiana derivano dalla vendita dei diritti televisivi. Si stima siano oltre il 40% dei ricavi. Altri introiti sono legati alla vendita degli abbonamenti e dei biglietti, alle sponsorizzazioni e alla pubblicità. Pertanto, la finalità di possedere un proprio impianto sarebbe di ampliare il bacino di guadagno attraverso nuove transazioni, favorite da uno stadio polifunzionale, dove è possibile usufruire di ristoranti, palestre e negozi.
La scelta di uno stadio di proprietà offre l’opportunità per i club del campionato italiano, naturalmente per quelli che se lo possono permettere, di estendere il business e di erodere il divario con le big europee che sempre più spesso vantano il possesso di strutture calcistiche.
Tuttavia, a ben guardare, buone pratiche nella penisola non mancano: un esempio eccellente lo Juventus Stadium, la fortezza del club bianconero. Un esempio in fieri, lo stadio della Roma a Tor di Valle, il cui progetto è stato presentato a fine maggio presso il Comune di Roma, ora in attesa del vaglio e del passaggio alla Regione (sembrerebbe esserci un progetto anche in casa biancoceleste, lo stadio delle Aquile l’impianto della Lazio sognato dal presidente Lotito in zona Tiberina).
Cambiare la mentalità
Costruire nuovi stadi con il preciso obiettivo di integrare i ricavi grazie allo sviluppo del merchandising è ormai la cifra distintiva del calcio europeo. Eppure, a ben vedere, tra il dire e il fare, un mare di criticità. In primis, il successo di pubblico resta strettamente connesso al mutamento del modus vivendi dello stadio, destinato ad ospitare eventi sportivi e non solo. Ristoranti, bar, palestre, negozi, museo della squadra e, qualora l’area fosse molto estesa, alberghi, centri commerciali da dare in affitto; un autentico stadio polivalente che at-trae plus valore.
Una realtà che dovrebbe ospitare un numero crescente di spettatori, clienti dinamici ed eclettici. In certo qual modo, si dovrebbe via via modificare la mentalità stessa del tifoso, sempre più proteso verso una fruibilità continuativa dell’impianto sportivo, non più circoscritto entro il perimetro del campo, in un tempo prestabilito; non più rinchiuso entro le mura di casa, comodamente abbonato alla televisione.
E a partire da questa nuova esistenza, il tifoso post moderno dovrebbe vivere lo stadio sette giorni su sette, respirando l’aria in un area calcistica aperta ad altro, aperta all’altro. Incontrar-si al di là dell’incontro, per socializzare, senza violenza. La sicurezza, fondamentale per avvicinare l’utenza, sembrerebbe garantita, ad esempio, da una di restrizione dei posti: lo stadio di proprietà prevede solo posti a sedere a fronte di un maggior controllo degli spettatori, così facilmente identificabili.
Burocrazia edilizia
Come ogni nuova edificazione, anche la progettazione e la realizzazione di un impianto sportivo dialoga con le istituzioni chiamando in causa tutti i passaggi della filiera edile. Permesso di costruire, indagini geognostiche, oneri di costruzione, opere di urbanizzazionte etc etc, insomma tutto all’insegna dei vari piani regolatori e dell’autorità di turno.
In tal senso, esiste la legge degli stadi1 varata al fine di favorire, appunto, una restrizione del tempo necessario all’assolvimento delle pratiche burocratiche. Oggi, infatti, basta circa un anno per avere le autorizzazioni necessarie, mentre in passato ce ne volevano almeno cinque. Inoltre, il testo prevede il via libera alla costruzione dell’impianto, se il progetto è di pubblico interesse. Un indubbio incentivo per gli investimenti privati, che, però, rischia di rendere lo Stadio un crocevia di interessi collaterali.
Chi finanzia?
Problematica, questa di non facile risoluzione. Dove reperire i proventi per avviare i lavori? Attraverso finanziamenti? Come sanare l’indebitamento che si contrae per realizzare la grande impresa? Ad esempio la costruzione dell’Amsterdam Arena, il famoso stadio della squadra olandese Ajax, rientra in un progetto governativo di sviluppo, pertanto è stato finanziato per buona parte dalle istituzioni e da grandi aziende.
In effetti, la presenza costante di pubblico dovrebbe favorire la “capacità produttiva dello stadio”, aumentando i ricavi per le società titolari e facilitando il rientro delle quote capitali per un bilancio positivo. Quando componenti di reddito derivano dalle attività promosse all’interno dello stadio, si parla nello specifico di ricavi da stadio. E ci si riferisce a ricavi da stadio sia per i flussi derivanti dalla vendita di biglietti e sia per le entrate nelle giornate senza competizione sportiva.
Certo è che club come “Milan, Inter, Roma, Lazio e Napoli potrebbero permettersi la costruzione di uno stadio nuovo, in quanto il numero ingente di tifosi, riempendo l’impianto, porterebbe soldi alle casse della squadra; senza dimenticare, però, che per compensare le spese il costo di abbonamenti e biglietti aumenta circa del 40%. Viceversa, le piccole e medie società potrebbero procedere a ristrutturazioni come ha fatto l’Udinese.
Da un punto di vista generale sorge un’ultima considerazione: uno stadio moderno, all’avanguardia, accogliente che si sostantifica come centro di profitto rischia di trasformare i tifosi in puri consumatori. Se all’interno dell’area si diversificano le offerte, si aprono gli spalti a spettatori usuali e occasionali, entrambi accomunati da un unico denominatore: spendere. Si isola una tendenza al consumo sublimata allo sport, un amaro riscontro.