Il ritorno del vagamondo al suo nido

Vagamondo, perché – Dove eravamo rimasti? Forse era ieri, un anno fa, o mille giorni sono già volati via?

No, sono solo passati 5 anni dall’ultimo nostro incontro, quando nelle sale del Musel il nostro amico ci aveva raccontato delle sue avventure, cominciate via mare e proseguite su di una moto attraversando quasi tutta l’America Latina.

E con quel volto ..un po’ così, con quegli occhi che sicuramente rivedono i luoghi, i visi e le persone incontrate e che tu le senti presenti tramite  le sue parole, resti incollata alla sedia e la tua attenzione è al massimo.

Tutto era nato dalla lettura del libro La libertà di andare dove voglio di Reinhold Messener, perché Gian Paolo Ferrari aveva scelto di voler vivere al limite di ogni possibilità umana.  Voleva essere come lui, scalare montagne, fare discese in canoa, navigare in barca vela o attraversare deserti.

Si sentiva schiacciato dalla propria omologazione, voleva scoprire attraverso le emozioni quello che la vita offriva e poteva mutare e cambiarci perché avevamo lasciato da parte tante cose. Sapere che non siamo unici e non dovevamo nascondere la propria personalità e scoprire quella verità che ci poteva arricchire e tramite l’avventura conoscere altre realtà.

Via in moto per 33mila chilometri. L’avventura del vagamondo riprende

Detto, fatto, Gian Paolo all’inizio dell’anno riparte per un viaggio in solitario con la sua moto e fare 33.000 km.  Sarebbe andato bene tutto bene? Scegliere le strade da percorrere, vedere fino a che punto il suo coraggio di esploratore si sommava a quella fiducia che aveva in se stesso.

Arriva così a Montevideo, l’Argentina, il Brasile, il Paraguay e poi il Venezuela, sconsigliato anche dalla Farnesina, gli vengono incontro ed è immerso in paesaggi con enormi problemi di viabilità tanto da sembrare che quella parte del mondo non potesse esistere sulle cartine geografiche. E tanta povertà, sembrava un ritorno ai secoli passati, gli abitanti vivono di agricoltura ed i loro villaggi attraversati da torrenti, terreni e foreste fotografano un mondo che per noi non è immaginabile.

Fotografare quelle povertà, quei volti, sollecita la voglia di chiudere gli occhi, ma poi ti accorgi che con un semplice sorriso leggi in loro quella voglia di fantasia e libertà e diventa semplice capire la forza di quella loro umanità.

Il racconto allora spazia su come, lui sconosciuto, sia stato accettato e accolto con quella generosità cristiana che sovente noi scartiamo. Ospitato in casa, sfamato, fatto riposare ed anche con il gesto di rimbocco delle coperte.

In Ecuador le persone che l’incontravano lo abbracciavano come un amico di sempre, a un posto di blocco è anche fiorita un’amicizia. Era nell’altra parte del mondo ma per lui quel mondo gli ha fatto capire che tutto era rapportato ad una sola parola: fiducia.

E poi in volo

Lasciata la moto, vola alle Galapagos, quando sente una voce che lo chiama: “Italiano?” Il mondo è davvero piccolo, così ha scoperto che quella persona aveva vissuto a Genova e conosceva tutti i paesi della Riviera. In quel posto ha fatto una vacanza perfetta, ed anche lì il quoziente fortuna è stato un suo alleato prezioso.

Giunto a Miami è stato come chiudere un libro ed aprirne un altro. In quel momento ha capito che la civilizzazione aveva un solo nome: denaro.

New York, bella fin che si vuole, ma caotica e, quasi, invivibile.

Ritorno al nido

Rubato, per così dire l’ultimo posto sull’aereo, ha provato una specie di liberazione.

Man mano che le nuvole avvolgevano l’apparecchio, i ricordi di questa avventura si sgranavano e rimanevano le immagini più belle, quelle di un mondo ricco di poche cose, tante contraddizioni, ma dove la parola “amico” ha un significato vero e profondo perché fa parte di un vocabolario universale.

Il vagamondo era tornato a casa o meglio al o seu nio.

 

 

Immagine by Eberhard Grossgasteiger – pexels.com

 

 

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