La terra vista dallo spazio è un posto senza frontiere né confini

Queste le parole dell’astronauta russo Jurij Gagarin che Simone Spada prende in prestito per il suo primo film come regista Hotel Gagarin attualmente nelle nostre sale cinematografiche. Buoni gli incassi.

Ma la terra è davvero un posto senza confini e frontiere??? Forse, se vista dall’alto ancora, è possibile scorgere una qualche sorta di unicità che da qui, dal basso sfugge.
Eppure, al di là delle polemiche vigenti, con questa pellicola si sogna, inaspettatamente. Il cast, Claudio Amendola, Giuseppe Battiston, Luca Argentero, Barbara Bobulova, Silvia D’Amico, predispone fin da subito lo spettatore alle risate più genuine, tipiche della commedia nostrana da consumare in questo giugno incerto, dal caldo ancora timido. Simone Spada, che vanta una lunga carriera come aiuto regista, mette in scena una insolita troupe cinematografica composta di gente improvvisata che, grazie ad un finanziamento europeo, può girare un film in Armenia. Si tratta di una sceneggiatura scritta da un professore di storia, Nicola Speranza (Giuseppe Battiston), un docente come tanti, annoiato e tuttavia intento a coltivare la sua passione per il cinema sovietico. Una passione in cerca di improbabili spettatori.

Poi c’è l’elettricista Elio (Claudio Amendola), il fotografo Sergio (Luca Argentero), la prostituta Patrizia (Silvia D’Amico), l’organizzatrice (Barbora Bobulova). Partono tutti insieme alla volta dell’Armenia per dare l’avvio alle riprese del lungometraggio. Girano per lande sconosciute alla scoperta dei luoghi e, in attesa del primo ciak, alloggiano nell’Hotel Gagarin, confortevole e accogliente struttura. Ma la guerra è alle porte, quindi vengono segregati dall’esercito dentro le quattro mura della struttura alberghiera, isolati dalla lontana patria. Intorno solo distese innevate su cui si staglia la loro disperazione. In quella trincea inusuale si alternano sprazzi di comicità consegnata alla bravura degli attori, in particolare Amendola regala battute vincenti.

Per il resto lo spettatore resta in attesa, sospeso fra un’ilarità mancata e una leggerezza narrativa che lentamente si fa poesia. Il film prende una fisionomia diversa. Basta la richiesta di un abitante del paesino vicino di girare una scena durante la quale lui impersonifica l’astronauta Gagarin a dare l’avvio a questa fabbrica dei sogni. Così, segue la catena dei desideri di tutti i rifugiati che accorrono numerosi all’Hotel Gagarin. L’illusione si fa possibilità per quella fila infinita di aspiranti attori. Il film abbandona la trama, la vicenda dei singoli personaggi si cela dietro le chimere di quella gente lontana. Il film forse si piega su sé stesso.

Di certo è da lodare il fatto di voler girare un film che parla dell’Armenia, di una guerra che fa da sfondo ad un paese bellissimo. Ci vuole coraggio a raccontare le vite al confine, ci vuole coraggio a rendere l’Armenia terreno impervio di emozioni primordiali, patria inusuale di speranze. I boschi, il mare, la neve, quasi non luoghi dove l’orizzonte sembra non lasciare traccia di sé. Uno sfondo che via via diviene meno inaccessibile.
Dunque, un film ambizioso che forse non riesce fino in fondo. Eppure, sebbene talune pretese si sciolgano come neve il sole, la pellicola dona allo spettatore un’inspiegabile dolcezza. Del resto, si sa, le intenzioni, le migliori intenzioni, possono riscaldare il cuore. Degli spettatori. Dei protagonisti che rispondono al fuoco delle illusioni con una raffica di chimere che prendono corpo grazie alla macchina cinematografica, da sempre fatina dei desideri. Per sempre.

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