Eredità di Venezia 2017. “Un certo sguardo”.

Anna Magnani Sidney LumetLa 74esima Mostra di Venezia, primo festival nella storia delle mostre cinematografiche, in parallelo con l’arrivo di Irma, l’uragano della Florida, le devastazioni causate dalle inondazioni a livello mondiale, l’instabilità socio-politica imperante, sembra aver rappresentato un simbolico abbraccio di comunione con l’altro, di riflessione sulla “banalità del male” e sulla possibilità di riscatto individuale e collettivo, di storie, di vecchie e giovani generazioni.

Il registra Guillermo del Toro, Leone d’oro (che affettuosamente gioca con la parola “Leone”, ricordando il registra a cui lui è particolarmente legato.  Un doppio onore, dunque il premio. “The shape of water” (La forma dell’acqua),il film vincitore, un racconto fantastico che invita a sconfiggere la paura attraverso l’amore. Un atto creativo in cui il regista messicano nel suo discorso di premiazione evoca la sua età (52) e il suo peso, quasi un punto di cesura per se stesso e la sua arte, dandosi la possibilità di credere in ciò che fa stare bene (è un invito a tutti), lui per esempio, bonariamente asserisce di “credere nei mostri”.

Il pianto dirompente, convulso, del giovane attore, sceneggiatore e registra francese Xavier La Grand che con il suo JUSQU’À LA GARDE si aggiudica sia il Leone d’argento “Premio alla miglior regia” che il Leone del Futuro, Premio Venezia Opera prima “Luigi de Laurentis”, è come se avesse raffigurato una liberazione collettiva dalla quotidiana percezione  di minaccia, per confluire in un terreno di concordia e ricostruzione.

Coppia Volpi, miglior attore per il film The Insult di Ziad Doueiri (Libano, Francia), è stato consegnato a Kamel al-Basha, famoso attore di teatro palestinese, alla sua prima prova cinematografica , che ringrazia tutto il pubblico palestinese che da anni lo segue e, grazie al quale, probabilmente è stato chiamato dal registra libanese Doueri.

Un film in cui si narra uno scontro, nella Beirut di oggi, tra un libanese cristiano e Yasser, un profugo palestinese che dopo aver vissuto un rabbioso scontro che li porterà in tribunale, si spingeranno oltre la loro quotidianità e pre-giudizi.

Eloquente, il commento del regista che leggiamo sul sito della Biennale di Venezia: “The Insult è stato ispirato da un incidente che mi è accaduto qualche anno fa. Quando guardo indietro, mi rendo conto che questo semplice incidente si sarebbe potuto trasformare in una crisi nazionale. Il Libano è un paese molto complesso, pieno di contraddizioni e di passione. Con Joëlle Touma abbiamo scritto una storia che evoca tanto il nostro passato quanto il nostro presente. Questo è un film sulla giustizia. Cioè quello che Toni e Yasser, i protagonisti, stanno cercando. E la ricerca della giustizia è anche una ricerca di dignità”.

Un forte richiamo alla giustizia, ci viene dal passato, con il Premio Speciale della Giuria a Sweet Country del regista aborigeno australiano Warwick Thornton che ci narra una storia di schiavitù e razzismo (in stridente contrasto con il titolo “Dolce Paese”) che in stile western descrive la condizione di schiavitù e oppressione in cui hanno vissuto gli aborigeni in Australia nelle zone semi-desertiche e remote del continente, conosciuto come “Outback”.  Uno sguardo schietto e sincero su un mondo che potrebbe riscattarsi, ma rimane attaccato ai suoi in-umani parametri. Sia il regista che lo sceneggiatore David Tranter, sono cresciuti in quelle zone, assorbendo le storie orali che fanno parte della tradizione aborigena che  tramanda da generazioni e generazione. La storia è ambientata nel 1929.

Sempre in ambiente mediorientale, il Leone d’argento Gran Premio della giuria all’israeliano Samuel Maoz (Leone d’oro 2009) per il suo Foxtrot, autore anche della sceneggiatura; il titolo del film, come ricorda il regista durante la premiazione, è un ballo in cui si torna sempre al punto di partenza, così e come si sente sia lui che i protagonisti del suo film, che devono confrontarsi con la morte di un figlio. Film ambientato durante l’invasione di Israele in Libano nel 1982, a cui prese parte ai soli 20 anni.

Così come il Premio Marcello Mastroianni (giovane attore o attrice emergente) è andato a Charlie Plummer per il film del regista inglese Andrew Haigh, Lean on Pete, narrazione di una solitudine giovanile, immerso nella società odierna, in cerca di un suo spazio vitale, rimasto orfano.

La Coppa Volpi (miglior attrice) premia una grandiosa Charlotte Rampling per il film Hannah del regista e sceneggiatore italiano Andrea Pallaoro, caro a Scorsese; narrazione intima e profonda di una donna d’età, a confronto con il proprio passato e la contemporaneità. Un autore italiano e un’artista britannica, ancora una volta l’incontro interculturale porta a raffinati risultati.

Venezia, madrina della realtà virtuale come mostra d’arte

Altro filone che marca i segni dei tempi, non solo in Laguna, ma a livello internazionale, l’inserimento di una nuova categoria, la cui giuria è presieduta da John Landis: Virtual Reality Venice ; la realtà virtuale sempre più presente nella nostra società, dal campo militare a quello sanitario, passando per quello ludico (la crescita esponenziale del mercato dell’intrattenimento dei videogames ne è una dimostrazione),  si fa arte proclamata.  Prima competizione assoluta di film in Realtà Virtuale a livello mondiale.

I tre film vincitori della sezione Virtual Reality Venice sono accomunati dall’elemento biografico degli autori/registi: origine asiatica e americana e,  tra i vincitori, primeggiano le donne; tecnologia e la creatività, figli di un incontro felice tra culture e tradizioni diverse e la sensibilità artistica femminile in primo piano.

Venti dell’est dalla giuria junior

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Michael Waszyński, Sophia Loren, Jason Mason (gazetawyborcza.it)

La Giuria di Venezia Classici, presieduta da Giuseppe Piccioni e composta da studenti di cinema provenienti dalle università italiane: 26 laureandi in Storia del Cinema, indicati dai docenti di 12 DAMS e della veneziana Ca’ Foscari, come miglior documentario, premia The prince and the Dybbuk dei registi polacchi Piotr Rosolowski, ed Elwira Niewiera, incentrato sulla figura leggendaria di Mosze Walks, registra e produttore cinematografico polacco, emigrato ad Hollywood, conosciuto come “Principe Michael Waszyński”, di classici statunitensi e del film The Dybbuk (da qui il titolo del film), censurato dal ministro dela propaganda del Terzo Reich Goebbels.

Più che un principe, come ci riporta Gazeta Wyborcza (uno dei maggiori quotidiani polacchi), un re del cinema e della vita. Nato da una famiglia ebraica povera, a 16 anni si trasferisce a Varsavia, aveva già in valigia una nuova biografia. Acclamato regista di film di genere con la proiezione del film in yiddish Dybuk diventa un artista. Ha scritto e riscritto la sua biografia, fino ad arrivare ai ranghi nobiliari.

Sempre dell’ex Europa orientale il premio per il miglior film restaurato Idi i Smotri (Vai e guarda) di Elem Klimov (URSS, 1985), ambientato nella seconda guerra mondiale.

Quadro composito della giuria

La giuria Venezia 2017 ha rappresentato essa stessa un intenso quadro variegato per cultura, età, anagrafe e genere, quest’ultimo con l’asse spostato verso il genere femminile, altro segno dei tempi, osiamo dire.

Presieduta dall’attrice statunitense Annette Bening, ha accolto: ldikó Enyedi (registra e scenegiattrice ungherese, Orso d’oro a Berlino 2017), Michel Franco (produttore, registra e sceneggiatore messicano, produttore del Leone d’Oro 2015, Desde allá), Rebecca Hall (attrice britannica), Anna Mouglalis (attrice e modella francese), Jasmine Trinca (attrice italiana), David Stratton (critico cinematografico anglo-australiano e personaggio televisivo), Edgar Wright (regista, sceneggiatore, produttore e attore britannico), Yonfan (regista e fotografo taiwanese-Hong Kong).

L’amalgama culturale, professionale e di genere della “comunità giudicante” tratteggia i contorni necessari ad una società, capace di guardare oltre e dentro la realtà, ad occhi aperti.

Foto di copertina: Anna Magnani con il regista Sidney Lumet (Pinterest)

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