Kimono ma non solo. L’intramontabile influenza dell’estetica giapponese
Haruyo Morita è un artista giapponese conosciuta per i suoi ritratti di dame con kimoni dagli strabilianti colori e fantasie che richiamano quelli degli ambienti circostanti, altrettanto fantasiosi; composè la cui vivacità che non supera mai i confini dell’armonia cromatica, riprodotti con attenti e raffinati accostamenti, in un insieme di grande delicatezza.
Nata nel 1945 nella prefettura di Saitama, precocissima nel disegno, fino al 1972 Morita è stata proprio una disegnatrice e pittrice di kimoni per poi dedicarsi a questo tipo di ritrattistica che affonda le sue radice nel genere di stampa artistica ukiho-e, del periodo Edo (XVII –XIX secolo).
A renderla celebre per sempre è la sua composizione Twelve Layer Kimono (kimono a dodici strati), rifacimento del costume nazionale con una stampa del periodo Showa (1926-1989), donata da un privato al Virginia Museum of Fine Arts di Richmond e facente parte della collezione permanente della sezione asiatica dell’istituzione.
Dopo aver viaggiato per il mondo ed esposto le sue opere da Londra alla Arabia Saudita, ora l’artista risiede a Korora nel Nuovo Galles del Sud – Australia.
Morita è un esempio dell’innato stile del suo popolo, che tanto influisce sul gusto occidentale dalla fine dell’Ottocento a oggi, come riflette lo stesso Mady in Italy. Lo racconta Laura Dimitrio nel libro Non solo kimono. Come il Giappone ha rivoluzionato la moda italiana, da poco in libreria (anche online) per Skira editore.
Il libro è formato da 3 parti: la prima dedicata alla diffusione del kimono e dei costumi tradizionali e all’origine del nipponismo in Occidente, approfondito nella seconda parte dove ne descrive l’influenza nell’arte, cultura e abbigliamento fino a giungere e la terza dedicata alla sua ascendenza sulla moda italiana sui grandi del Made in Italy. Fenomeno quest’ultimo che, ricordiamo, con il suo prêt-à-porter dominò la moda mondiale della seconda metà degli anni Settanta, rubando negli Ottanta lo scettro alla Francia.
Giorgio Armani è un grande interprete dell’estetica giapponese fin dall’inizio della sua carriera. Per spiccata e naturale propensione stilistica, già negli anni Ottanta disegnò una collezione ispirandosi alle stampe di Utamaro e al film di quegli anni Kagemusha del regista Akira Kurosawa, ambientato nel Giappone del Cinquecento.
Un rapporto di amorosi sensi quello fra lo stilista e l’arcipelago nipponico, un amore contraccambiato e duraturo: ancora nel 2020 lo stilista era a Tokyo sfilando presso il Museo Nazionale, il più grande del Giappone, tempio dell’arte e dell’archeologia dal 1872.
Altro grande nome del Made in Italy e nei cui modelli è visibilissimo il riferimento al costume tradizionale nipponico è il mai troppo rimpianto Gianfranco Ferré. Nato architetto poi passato alla moda, la formazione di Ferré emerge dall’interpretazione dei volumi, forme, linee, sovrapposizioni e alte fusciacche e fantasie dei tessuti dalla silografia ukiho-e.
La differenza fra la purezza e l’essenzialità di Armani e la fastosità di Ferré trova il suo punto di contatto nella comune, nelle proprie diversità, interpretazione dello stile nipponico.
Stile che ha saputo oltrepassare la tradizione senza perdere il suo potere di suggestione sul Made in Italy con i nuovi designer nipponici d’avanguardia degli anni Settanta, come Kenzo o Issey Miyake, ai quali si ispirano, ci dice Dimitrio, Ennio Capasa o Antonio Marras che della Kenzo Maison è stato direttore creativo dal 2003 al 2011.
Immagini: in copertina e in alto i quadri dell’artista giapponese Haruyo Morita; al centro la copertina del libro ‘Non solo kimono. Come il Giappone ha rivoluzionato la moda italiana’; in basso da sinistra, Tokyo 2002, Giorgio Armani tra le modella dopo la sfilata nel Museo Nazionale; sfilata di Gianfranco Ferré, e quella di Antonio Marras