…perché anche le parole sono Cosa Nostra!

I gerghi, lo sappiamo, sono linguaggi settoriali, creati da un gruppo di persone per aumentare il senso di appartenenza al gruppo stesso. Sono diffusi, soprattutto, i gerghi giovanili e quelli malavitosi. Questi ultimi si usano per essere incomprensibili alle persone estranee all’organizzazione e, al tempo stesso, come strumento per il mantenimento del potere.

Le parole gergali nascono, si adattano e si modellano in base al cambiamento dei tempi e, ultimamente, in relazione dei nuovi media, esattamente come accade con il linguaggio canonico.

Ma la realtà gergale nell’ambito criminale è più complessa, perché deve adattarsi anche alle esigenze della stessa organizzazione e segue 2 logiche distinte fra comunicazione interna ed esterna.

All’inizio fu il baccagghiu

Il gergo malavitoso, d’altronde, si tramanda, modificandosi, da secoli, e viene indicato con il termine baccagghiu: composto, come afferma Ernesto Ferrero nel suo Dizionario storico dei gerghi italiani (1991, ampliamento de I gerghi della mala dal ‘400 a oggi, 1972, entrambi editi Mondadori), da un lessico interregionale che consente di stabilire un contatto immediato tra i criminali delle varie regioni. Presente in Sicilia fin dal Settecento, si è diffuso nel passaggio dalla mafia rurale a quella urbana per modificarsi, con l’evolversi delle attività mafiose, da gergo di ladri e sfruttatori all’odierno gergo adattato ai traffici internazionali di armi, droghe e uomini.

Il baccagghiu, insomma aggrega, mantiene viva la comunicazione tra i membri del clan, garantisce la riservatezza delle comunicazioni e segna il confine con la società, come rimarca Giuseppe Paternostro, ricercatore di linguistica dell’Università di Palermo, nel suo recente saggio Linguaggio mafioso – scritto, parlato e non detto (ed. Aut-Aut).

Con un excursus che parte dal primo Novecento e arriva ai giorni nostri – potremmo dire da quando l’attuale pizzino si chiamava scrocco – da Paternostro apprendiamo la diversità tra il gergo interno e il linguaggio mafioso esterno.

Più che mai in codice, nel comunicare con il mondo il linguaggio mafioso ha sempre una duplice valenza: inviare messaggi occulti e strumentalizzare i media, compresi i social media.  I mezzi di comunicazione sono usati per ribaltare la percezione dell’opinione pubblica degli stessi personaggi mafiosi (per esempio le interviste anche televisive rilasciate dai figli dei boss Provenzano e Riina) e a creare una rete di comunicazione dove le parole famiglia, amicizia, verità, umiltà onore assumono un valore capovolto.  Nonostante la loro scarsa cultura, conclude Paternostro, i padrini sono riusciti a rinnovare il proprio linguaggio nel solco della continuità: una tecnica che gli ha permesso “di attraversare un secolo e mezzo di storia unitaria”.

 In Calabria invece...

La n’drangheta, la criminalità calabrese, invece, più che parlare si mostra “molto sensibile” alla comunicazione pubblicitaria.

Lo sostiene Nicola Gratteri, procurato della Repubblica di Catanzaro, affermando che le ‘ndrine riservano la massima attenzione agli articoli, ai servizi televisivi, alle varie pubblicazioni sul web che le riguardano. Perché, spiega Gratteri ad AGI, l’organizzazione calabrese “ha bisogno di pubblicità” e come ogni grande industria deve offrire di sé “un’immagine vincente, credibile, efficiente e capace di dare risposte”. Ed investe in pubblicità, magari comprando una squadra di calcio o, come accadeva un tempo “facendosi vedere vicino a qualche prete o vescovo”.

Trame 8, il festival di libri sulle mafie

Parole scritte e parole dette della e sulla mafia sono la base di Trame, festival di libri sulle mafie che si svolgerà dal 20 al 24 8giugno 2018 a Lamezia Terme: presentazione di saggi, analisi, dibattiti, discussioni e confronti nella città dove il consiglio comunale è stato sciolto per la terza volta per infiltrazioni mafiose.

Un paradosso? Ha senso realizzare un festival di libri sulle mafie in una città dove la democrazia sembra essere sospesa, si sono sentiti chiedere gli organizzatori del festival giunto alla sua 8° edizione.  Gaetano  Savatteri, direttore artistico della manifestazione, non ha dubbi: il senso c’è perché Trame “è un occasione culturale di discussione, di analisi sulle mafie ma anche sullo stato dell’arte dell’antimafia “.  I festival e i libri “non servono ad arrestare le persone – aggiunge Savatteri – ma servono a rilasciare tossine benefiche che s’infiltrano nelle coscienze dei cittadini, a cominciare dai più giovani”.

Il tema dell’edizione 2018 è Il coraggio di ogni giorno e, quindi, uno spazio particolare sarà dedicato alle persone oneste che resistono e continuano a lavorare, nonostante tutto, nel territorio calabrese.

Trame è stato inserito dal Ministero dei Beni Culturali tra gli appuntamenti dell’Anno Europeo del Patrimonio Culturale, considerato tra i 100 festival più importanti d’Italia,  è il primo evento culturale dedicato ai libri sulle mafie

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