Giornalisti uccisi: sono di meno, e non è una buona notizia
Giornalista: un mestiere che può ucciderti. Come è successo nel 2016 a 74 persone che, a vario titolo impegnate nel racconto e nella descrizione di situazioni ad alto rischio, sono stati uccisi nell’esercizio delle loro funzioni.
Il dato, contenuto nell’annuale e oramai tradizionale rapporto della ONG Reporters Senza Frontiere, segna un netto calo rispetto al 2015 (quando i giornalisti morti erano stati 101): attenzione, non è una buona notizia.
Il rapporto
Premettiamo: per scrivere questo articolo abbiamo deciso di prendere come spunto e come punto di riferimento – come già detto – il rapporto di “Reporters sans frontières”, anche se abbiamo trovato altri rapporti con cifre diverse (quello del “Comitato per la Protezione dei Giornalisti“, ad esempio, segnalava per il 2016 48 giornalisti deceduti contro i 71 dell’anno scorso). Questa scelta l’abbiamo compiuta per voi per la qualità e la quantità delle informazioni contenute nel lavoro di RsF, e per la tradizionale autorevolezza che da sempre è riconosciuta a questo strumento.
E premettiamo/parte 2: nella redazione di questo articolo parliamo di giornalismo come di quella pratica che scova notizie, che le cerca, che si mette di fianco al protagonista, ne annusa l’odore, ne scava e dissotterra i segreti, spesso in forma autonoma, come free lance o come inviato sul campo. Quindi, è evidente che non ci accontentiamo di definire come tale l’adesione ai comunicati stampa delle cancellerie occidentali o – peggio ancora – alle comunicazioni dei potentati locali.
Ebbene: dicevamo. Il numero di morti che il mondo del giornalismo paga quest’anno – come anticipato – è di 74. Lo scorso anno – abbiamo anticipato anche questo – erano 101. Il che porta il computo dei giornalisti morti nell’esercizio delle loro funzioni a 780 negli ultimi dieci anni. Cresce invece in maniera esponenziale il numero dei giornalisti detenuti in carcere, in ostaggio o peggio scomparsi: 348 persone, 6% in più rispetto al 2015. Di questi, solo l’1,5% straniero.
Turchia, il buco nero a due passi da casa
Per l’ultimo dato di cui vi abbiamo parlato, ovvero quello dei giornalisti incarcerati, c’è un Paese che batte tutti, e con largo distacco: la Turchia di Erdogan. Sono stati infatti oltre 100 gli arresti compiuti fra reporter e operatori a partire dal post golpe di luglio. Un dato – terrificante – che è comunque destinato a crescere esponenzialmente, visto che nel rapporto di RsF si parla di “centinaia di giornalisti e blogger sotto processo”. Le accuse? Piuttosto generiche per un Paese che siede ai tavoli internazionali ove viene rispettato come un plausibile interlocutore: “Insulti al Presidente”, “Vilipendio delle istituzioni”, “Sovversione”, “Cospirazioni e attentati alla sicurezza del Paese”. Il Golpe di luglio è stato la miccia che ha fatto esplodere un vero e proprio giro di vite drammatico, “Segno tangibile e sconvolgente – si legge sempre nel rapporto – del processo involutivo in corso nel Paese”.
Meno morti = meno notizie
Dicevamo: il calo del dato delle morti non è una buona notizia. A spiegarlo la stessa “Reporters sans frontières”. In pratica, ci sono intere nazioni che sono diventate praticamente altrettante terre di nessuno di cui nessuno può parlare. Siria, Iraq, Libia, ma anche Yemen, Afghanistan, Bangladesh e Burundi sono luoghi praticamente irraggiungibili per giornalisti liberi e autonomi, o comunque dove gli operatori della comunicazione non sono presenti per l’elevatissimo rischio conclamato, essendo i giornalisti divenuti essi stessi merce di scambio, bottino ambito dai terroristi. Con la conseguenza che questi paesi sono divenuti dei luoghi sconosciuti, delle macchie nere sulla cartina mondiale la cui comunicazione è spesso lasciata in mano ai proclami di fanatici terroristi. Il che vale ovviamente per i giornalisti delle grandi testate mondiali, ma vale anche e soprattutto per il vero serbatoio di notizie e verità sul quale si poggia la produzione e la distribuzione di informazioni di prima mano: i free lance locali.
Colpisce infatti che la quasi totalità delle vittime abbia perso la vita nel proprio Paese. Sono soltanto 4 i giornalisti che sono stati uccisi all’estero: un siriano, Mohammed Zaher al-Shurqat in Turchia, uno statunitense, David Gilkey, in Afghanistan, un olandese, Jeroen Oerlemans, in Libia, e un iraniano, Mohsen Khazai, in Siria.
Fare il giornalista in loco alla ricerca dello scoop, della storia, dello scatto da poter vendere ai media internazionali è diventato insomma troppo pericoloso, oltre che poco remunerativo. La nostra scarsa attenzione è diventata la loro condanna a morte. O – peggio – all’oblio. E ci troviamo così costretti a vivere nel paradosso: siamo la società umana più informatizzata di sempre, e perdiamo pezzi di mondo interi dal nostro cono plausibile di attenzione. Di più: siamo certi di avere tra le dita qualsiasi news dal mondo, e ci troviamo a non sapere nulla di milioni (miliardi?) di persone.
Con quei 780 morti che ci fanno da sfondo, tentando di ricordarci – talvolta – quanto sia vitale sapere ed essere informati.
Vi segnaliamo la guida A Guide for the Savvy Journalist in a World of Ever Decreasing Privacy. La versione Ebook è scaricabile e gratuita.